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Ospitone chi era costui?

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Ospitone:chi era costui?

di Francesco Casula

Premessa.

Conosciamo Ospitone da un unico documento storico: una lettera del papa Gregorio Magno del maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito "dux Barbaricinorum". In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora "vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre". Non si hanno notizie di un'eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell'opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell'Isola alla fine del 500 di un "dux barbaricinorun" mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in Storia di Roma antica parla di una "Sardegna vinta e dominata per sempre" dopo  la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani?

Se fosse stata vinta e dominata per sempre che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un "dux barbaricinorum", Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus), che proprio in quel momento tentava di concludere la pace con i Barbaricini? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l'imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.

E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l'autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:"...Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad "adorare" le pietre, cioè i betili, permanendo nell'antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato.

Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall'opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri". (Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132)

Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone.

Cristianizzazione delle Barbagia   

Nasce dalla consapevolezza del ruolo di Ospitone la Lettera di Gregorio Magno con cui invita ed esorta pressantemente il dux barba ricinorum ad assecondare la missione del Vescovo Felice e dell'abate Ciriaco per la conversione delle popolazioni barbaricine al Cristianesimo. Ruolo, carisma e prestigio, peraltro, riconosciuti  e testimoniati dal fatto che il papa conclude la lettera inviandogli la benedizione di San Pietro che era collegata "a una catena dei Beati Apostoli Pietro e Paolo" (D. Argiolas, Lettere ai sardi, vedi Ollolai cuore della Sardegna di Salvatore Bussu, pagina 53). Benedizione che era riservata, di regola, solo agli Ecclesiastici: a dimostrazione della stima che nutriva per Ospitone.

E' poco credibile però - come scrive il papa - che solo Ospitone si fosse convertito al Cristianesimo, ad Christi servitium: certo è però che la gran parte delle comunità continuasse nella religione primitiva naturalistica, vivendo - per usare le parole di Gregorio Magno - ut insensata animalia, adorando pietre e tronchi d'albero.

A testimoniare ciò basterebbe solo pensare al fatto che delle otto sedi vescovili presenti in quel periodo in Sardegna (Cagliari, Turris, Sulci, Tarros, Usellus, Bosa, Forum Traiani e Fausania-Olbia) nessuna è alloccata nelle civitates barbariae e la nascita della sede vescovile di Suelli con l'episcopus Barbariae, proprio in quel periodo, pare essere dovuta proprio per la conversione delle popolazioni barbaricine.

Occorre però sottolineare che nelle stesse popolazioni dell'Altra Sardegna, più vicine alle coste e ai maggiori centri, il Cristianesimo era poco diffuso. Nonostante gli esili e le deportazioni dei cristiani nel basso impero romano (con la loro condanna ad metalla); i primi martiri condannati a morte tra il III e IV secolo d.C sotto Diocleziano.
 (Simplicio,  Lussorio e Saturno, Gavino, Prothu et Januariu, celebrati questi ultimi tre da Antonio Canu e Girolamo Araolla, i primi grandi scrittori di poemi in lingua sarda); i vescovadi e i papi sardi, (fra il 315 ed il 371 d.C., due vescovi sardi furono particolarmente attivi nella predicazione del Cristianesimo, Eusebio e Lucifero, mentre nel secolo successivo altri due sardi, Simmaco e Ilario, divennero Papi); la temporanea presenza dei vescovi africani. A dare un impulso decisivo per la conversione dei Sardi sarà proprio Gregorio Magno, con una instancabile opera di evangelizzazione e con l'istituzione di numerosi monasteri:inizialmente nelle case private. O con l'arrivo dall'Oriente dei monaci basiliani, che non solo diffusero il vangelo tra i Barbaricini ma introdussero la coltura d'alberi (melo, fico, ulivo) dei cui frutti si cibavano nei periodi d'astinenza e di digiuno.

Introdussero pure alcuni vitigni per la produzione di vini dolci per la messa (moscato e malvasia), praticavano i riti della Chiesa orientale, avevano la barba fluente e dedicarono le chiese ai santi del calendario greco. Opera, quella di Gregorio Magno e della Chiesa, accompagnata - occorre ricordarlo sempre - anche da propositi più corposamente politici e materiali, nella difesa (e aumento) dei propri possedimenti terrieri e dei proventi derivanti da gravami fiscali che volle sempre maggiori.

Nell'opera di evangelizzazione "i missionari - lo ricorda opportunamente don Salvatore Bussu, nel suo bel libro Ollolai cuore della Sardegna, pagina 57 - seguivano una direttiva molto saggia che papa Gregorio aveva già dato agli evangelizzatori dell'Inghilterra di non distruggere gli edifici sacri pagani, ma trasformarli in luoghi di culto cristiano e conciliare le esigenze della nuova fede con le vecchie tradizioni a sfondo religioso cui gli indigeni erano ancora legati. Si ebbe così una specie di commistione del vecchio e del nuovo, il quale si affermerà più chiaramente solo col passare dei secoli, pur non riuscendo a spegnere ma solo a trasformare, certi valori tradizionali".

Ciò è tanto più vero se si pensa a quanto scrive Sigismondo Arquer  nella sua Sardiniae brevis historia et descriptio, -e siamo già nel 1549! - "Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano - uomini e donne - dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa".

 

 

 

 

 


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Il SUPERPORCELLUM, I PRECEDENTI STORICI E LA RESTAURAZIONE RENZIANA

di Francesco Casula

Il sistema elettorale è la cartina di tornasole della qualità e quantità di democrazia di un Pese. Storicamente. Ad iniziare dal sistema maggioritario e uninominale, dell'Italia postunitaria prefascista. Era  uno dei principali strumenti di potere del Partito liberale di allora, dato che i suoi esponenti, in genere appartenenti alle élites locali, riuscivano a raccogliere senza troppe difficoltà - grazie anche a rapporti personali, di amicizia e di clientele - l'appoggio di un esiguo manipolo di elettori:qualche centinaia. Ricordo che nel 1861 il diritto di voto era riservato all'1,9% della popolazione:esclusivamente ai maschi di 25 anni con determinati redditi e titoli di studio. In Sardegna gli aventi diritto al voto erano 10 mila che salirono a 21.700 con la riforma elettorale del 1882, la cui percentuale salì in Italia al 6.9%.

I grandi partiti democratici di massa: il Partito popolare e soprattutto il Partito socialista si batterono allora per il suffragio universale perché, - canterà il nostro Peppino Mereu - "senza distinziones curiales/devimus esser, fizos de un'insigna/liberos, rispettados, uguales/ Si s'avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres' hat haer votu/happ'a bider dolentes esclamende/<mea culpa> sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende".

Con l'introduzione del suffragio universale (maschile) nel 1913 e del sistema elettorale proporzionale nel 1919, il vecchio sistema politico finì gambe all'aria e si affermarono proprio il Partito Socialista e quello Popolare, che si erano battuti contro il Partito dei notabili, delle clientele, della corruzione e della malavita e dunque, contro il sistema uninominale e maggioritario che lo favoriva.

Fu il Fascismo - non a caso - da meno di un anno al potere, ad abolire il sistema proporzionale e a reintrodurre un particolare maggioritario. Il Governo di Mussolini infatti, fra il luglio e il novembre del 1923, fece approvare alla Camera e al Senato una nuova legge elettorale - detta Legge Acerbo, dal nome del proponente ed estensore, un sottosegretario - che introdusse un premio di maggioranza: avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi 356 (alla Camera) la lista che avesse ottenuto il maggior numero dei voti e il restante terzo, da ripartire su base proporzionale, alle liste rimaste soccombenti. Il disegno era chiaro: eliminare di fatto ogni ipotesi di opposizione parlamentare, assicurarsi una maggioranza assoluta, accrescere l'indipendenza del potere esecutivo, preparare un regime a partito unico. Esattamente ciò che tragicamente si avvererà e si realizzerà.

Caduto il Fascismo e ritornata la democrazia, ancora una volta, non a caso, si opterà di nuovo per il sistema proporzionale. Cercò di attentare a questo sistema nel 1953 De Gasperi, che per garantire alla DC e ai suoi alleati una maggioranza in grado di mantenere la stabilità governativa su una linea centrista, fece approvare in Parlamento una legge che assegnava il 65% dei seggi alla Camera, al partito o al gruppo di partiti che avessero raggiunto il 50% più uno dei voti. Sandro Pertini dopo l'approvazione della legge si recò dal Presidente della Repubblica Einaudi chiedendogli di non firmarla. La firmò ma i risultati elettorali impedirono lo scatto di quella legge (i quattro partiti di centro, apparentati, ottennero solo il 49,85% dei voti)  ma i partiti di sinistra la battezzarono ugualmente legge-truffa.

Il 9 Giugno del 1991fu svolto il Referendum voluto da Segni: più del 90%  degli italiani - ma al Sud votarono solo il 55,3% degli elettori e al Nord il 68,3 -  si espressero a favore di un sistema maggioritario corretto (il 25% dei seggi veniva assegnato ancora su base proporzionale) e uninominale. Il nuovo sistema elettorale

 fu incarnato nel Mattarellum  del 1993. Segnatamente su tre punti si scatenò allora la propaganda e la demagogia dei referendari: la lotta alla partitocrazia, il rapporto diretto fra eletto ed elettore, e la"governabilità". Ma nessuno di questi obiettivi fu raggiunto.

Il Mattarellum fu sostituito dal Porcellum - nomen omen! -  utilizzato nelle elezioni del 2008 e contenente tre elementi fortemente antidemocratici. Primo: non ha permesso all'elettore di scegliere i propri rappresentanti. Questi, di fatto, sono "nominati" dagli oligarchi dei Partiti: il cittadino, mancando il  voto di preferenza, deve solo stabilire le quote spettanti ai partiti stessi. Secondo: grazie allo sbarramento (4%) vengono estromesse dal Parlamento forze politiche storiche importanti. Terzo: assegna uno smisurato premio di maggioranza alla coalizione che ha preso più voti. A prescindere dalla percentuale.

Come ognuno può avvedersi si tratta di una legge che lede acutamente il principio di rappresentanza, tanto che molti costituzionalisti ritennero già da allora che contenesse elementi di anticostituzionalità. Come puntualmente la Corte costituzionale stabilirà, sia pure in grave ritardo nel 2014.

Arriviamo così oggi all'Italicum, fotocopia del Porcellum, da cui eredita tutte le nefandezze., Un vero e proprio Superporcellum, per di più approvato da una maggioranza parlamentare ristrettissima, alla faccia del principio secondo il quale "le Regole" si decidono insieme e con la più ampia maggioranza possibile.

Una legge che avvia e segna un processo autoritario e un presidenzialismo de facto, impastata com'è della cultura del capo. Parte integrante di tale progetto è il neocentralismo statuale con l'attacco forsennato alla Autonomie locali e la delirante proposta di abolizione delle Regioni o comunque di un loro ridimensionamento e depotenziamento.

Il Pd è il paladino di questo ciarpame di incultura e di perversione della rappresentanza, della democrazia, della libertà e dell'Autonomia , di cui storicamente ne è stata titolare e depositaria la Destra.

Combattere e liquidare tale paccottiglia restauratrice renziana è urgente: non risolveremo certo la crisi della politica ma sicuramente potremmo mettere una diga perché essa non si inabissi definitivamente nella melma.

 

 

La guerra italiota e le migliaia di Sardi morti.

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La guerra italiota e le migliaia di Sardi morti.

Cento anni fa l'Italia entrava in guerra. Una "strage inutile", "una spaventosa carneficina" la definirà il papa Benedetto XV. Un valente sardo come Emilio Lussu - che proprio in quella guerra acquisterà prestigio e fama - parteciperà alla Guerra con entusiasmo, da interventista convinto e "chiassoso", giustificandola "moralmente e politicamente".

Al fronte però sperimenterà sulla propria pelle l'assurdità e l'insensatezza della guerra: con la protervia, ottusità e stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili. Ma soprattutto con l'olocausto degli uomini sfracellati e le foreste zeppe di crani nei cimiteri militari; con i 13.602 sardi morti su 100 mila pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come "gesto esemplare" alla D'Annunzio o, cinicamente, come "igiene del mondo" alla futurista, alla guerra non ci sono andati. La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. "Abbasso la guerra", "Basta con le menzogne" gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu - in «Un anno sull'altopiano» - "Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita".

Anche perché, in cambio dei 13.602 sardi morti in guerra, (1386 morti ogni diecimila chiamati alle armi, la percentuale più alta d'Italia, la media nazionale infatti è di 1049 morti) - per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti - ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee - sosterrà lo storico sardo Carta- Raspi - "non sfamava la Sardegna".

Nascerà dalla sua esperienza sul fronte l'opposizione netta, radicale, decisa di Lussu alla guerra: "Di guerre non ne vogliamo più - scriverà - e vogliamo collaborare e allontanare la guerra vita natural durante nostra e dei nostri figli e a renderla impossibile per sempre, disarmandola". 

 

 

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Irene Carta  dell'Università della Terza Età di Quartu Sant'Elena su

 

Notiziario dei soci dell'Universita della Terza Eta di Quartu Sant'Elena Maggio 2015

 

Scrive

      Lezioni di lingua e letteratura Sarda

Il prof. Francesco Casula non ha bisogno di presentazioni. La sua conoscenza della lingua e della letteratura Sarda sono una fonte di sapere, soprattutto per persone come me che sono state "private" del piacere di parlare il Sardo, in un momento storico nel quale era considerato disdicevole per le ragazze di buona famiglia, esprimersi, appunto, in sardo. La consapevolezza dei danni che cio ha determinato, l'avevo già avvertita da tempo, non fosse altro che pur sforzandomi, non riuscivo a leggere e, quindi, a capire i testi scritti in lingua sarda. E ciò mi precludeva la conoscenza di buona parte della stessa Storia della Sardegna.

Poi, pero, mi sono fidanzata, e poi sposata, con un ragazzo di Meana Sardo. Nella sua famiglia si parlava il sardo e, cosi, ho imparato ad ascoltarlo e a capirlo. Tuttavia, la

prima persona che mi ha fatto apprezzare le composizioni in lingua sarda, fu mio  suocero. Lui, amante delle "MODE", ne aveva una raccolta e la domenica, dopo pranzo, era solito accendere il giradischi e farmi sentire le "cantate" di Zizi, Pazzola e altri. Ricordo alcuni  versi di una cantata ispirata ad una rondine e che diceva cosi: "rundinella, d'ogni annu a primueranu in cussos nidos chi tant'ospitadu intonas una arcanica cantone...", oppure quella dedicata alla mamma che diceva: (sa mamma) finzas cecca e centenaria est sempere a su fizzu necessaria ...

Erano poesie bellissime e da allora ho incominciato ad apprezzare la mia lingua. Ovviamente sono stata felicissima di sapere che nell'Universita della Terza Eta di Quartu, il Prof. Casula teneva le sue lezioni. Mi sono resa conto di quanto fosse sentito il desiderio, ma direi il bisogno, di conoscere la lingua e la letteratura Sarda, e non solo da me, quando ho visto il numero delle persone che frequentano il corso e che  vorrebbero stare tutti in prima fila.

La passione che il Professore manifesta nell'esposizione degli argomenti fa in modo  che, pur in un'aula affollatissima, ci sia sempre grande attenzione e partecipazione.

Grazie, quindi al Prof. Casula per la sua preziosa opera di diffusione della cultura sarda

e grazie anche all'Università di Quartu che si avvale di docenti di cosi alto livello.

Irene Carta

 

 

Renzi verso uno stato napoleonico?

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Renzi verso uno stato napoleonico?

-napoleonbonaparte sconfitto
di Francesco Casula
Inquietanti segnali si addensano nel cielo della politica in relazione alla nuova forma dello Stato che si vorrebbe più centralista e accentrato. Addirittura "cancellando" le Regioni o comunque depotenziandole brutalmente. E sia. Ma almeno si abbia il pudore di non parlare di "Riforma" bensì di "Restaurazione".
Infatti lo Stato, rigidamente unitario centralista e accentrato, sul modello napoleonico, lo abbiamo già conosciuto. Fu quello uscito dalla unificazione italiana nel 1861. Esso, secondo lo storico marxista Ernesto Ragionieri, nacque come "specchio e indice dei rapporti di classe allora esistenti" e si ricollega, secondo un altro storico, Giorgio Candeloro, alla "ristrettezza del ceto politico risorgimentale, identificabile nell'alleanza della borghesia agraria-mercantile-bancaria centrosettentrionale con quella terriera del Sud, comprendenti entrambe la maggioranza dei ceti aristocratici, più o meno imborghesiti, delle varie Regioni". Quell'alleanza che Antonio Gramsci identificava sostanzialmente nel "blocco storico" composto della borghesia settentrionale e dal latifondo meridionale.
Tale ristrettezza è evidenziata esemplarmente dai dati elettorali: nel 1861 su un totale dell'1,9% degli aventi diritto al voto, votarono il 50-60% e un deputato veniva eletto con qualche centinaio di voti. Se causa di tale ristrettezza è la mancata rivoluzione agraria, la conseguenza sarà uno sviluppo economico territorialmente e regionalmente squilibrato. Infatti, a un modello di sviluppo economico che implica lo squilibrio territoriale, cioè il sottosviluppo di alcune parti del Paese - nella fattispecie la parte sarda e meridionale - è oggettivamente funzionale l'assenza di robuste Autonomie Locali. Di qui risulta chiaro il nesso e l'intreccio fra accentramento politico e amministrativo, modello di sviluppo, alleanze politiche di classe, esclusione dal potere e da qualunque possibilità decisionale della stragrande maggioranza della popolazione, specie della Sardegna e dei Meridioni d'Italia.Ogni altra soluzione diversa da quella centralistica e unitaria - ha sostenuto lo storico Rosario Romeo - sarebbe andata a vantaggio delle componenti clericali, perciò antiunitarie, filoborboniche e legittimiste. In altre parole concedere l'Autonomia rinunciando all'accentramento avrebbe significato - è lo storico Alberto Caracciolo a sostenerlo - "trasferire una parte del potere a forze che erano antagoniste rispetto a quelle che avevano guidato l'unificazione politica e l'ordinamento regionale avrebbe rappresentato un pericolo per l'unità nazionale, tanto faticosamente raggiunta". Forze e ceti che a causa dell'esiguità e della gracilità del tessuto sociale e culturale sarebbero intenzionati - sempre secondo Caracciolo - a "servirsene in senso regressivo". Secondo un altro storico, Carlo Ghisalberti " l'accentramento amministrativo è di per sé un dato progressivo, in quanto connesso alla linea di sviluppo dello stato moderno".
In altre parole lo Stato accentrato è visto come la soluzione adeguata e necessaria per l'arretratezza della società dell'epoca. La verità è che l'organizzazione e l'assetto centralistico dello Stato è coerente con il modello di sviluppo che implica lo squilibrio territoriale in cui al sottosviluppo di alcune regioni è oggettivamente funzionale l'assenza di robuste autonomie locali. Infatti dei governi regionali che avessero tratto legittimazione da una investitura più vasta di quella denunciata dalla percentuale di elettori sopra citata, e fossero stati provvisti del potere di orientare la politica e l'economia locale in senso conforme agli interessi delle rispettive popolazioni, avrebbero potuto respingere e avrebbero respinto un tipo di sviluppo che imponeva e richiedeva il sacrificio economico sociale delle loro Regioni.
La Questione delle Autonomie locali inizierà a emergere in seno al Movimento cattolico e al Movimento socialista solo negli ultimi anni dell'800, in connessione con la crisi acuta di quel periodo; si inabissa durante l'età giolittiana; riappare dopo la fine della grande guerra, in concomitanza con la fase critica più acuta della società e dello Stato; tace o è fatto tacere durante il Fascismo che impone coattivamente il superamento di tale fase e la conservazione del precedente schema di sviluppo. Il regime fascista comunque - è bene ricordarlo - non imporrà l'accentramento a un ordinamento caratterizzato dalle Autonomie ma si limiterà a portare a più coerenti conseguenze autoritarie e centralizzatrici strumenti e tendenze che erano già abbondantemente presenti nel regime liberale, giolittiano e prefascista.
La Questione dell'Autonomia riemergerà con forza con la fine del regime fascista e con la Resistenza. Essa infatti per come nasce, si sviluppa e si svolge ha - è Leo Valiani a sostenerlo - "un carattere intrinsecamente regionalistico" : pensiamo ai CLN Regionali, e alle repubbliche partigiane che in qualche modo rappresentano dei modelli prefigurando e precostituendo tratti del futuro nuovo Stato democratico per il quale i partigiani combattono. Il processo di restaurazione moderata postbellica tenderà a spazzare via le esperienze regionalistiche. Fra l'altro verranno ripristinati i Prefetti di carriera che rappresentavano uno degli strumenti fondamentali dello Stato prefascista e fascista e comunque espressione esemplare e paradigmatica dello Stato napoleonico, ottocentesco e accentrato. Prefetti che permarranno anche con il tenue e anemico "regionalismo" prima concesso alle Regioni a Statuto speciale nel '48 - fra cui la Sardegna - e in seguito, negli anni Settanta alle rimanenti regioni e ancora oggi con l'abolizione delle Province. Prefetti che, temo, acquisiranno persino ruoli e poteri maggiori all'interno del disegno renziano di restaurazione di uno stato viepiù accentrato, e centralista. Qualche studioso e analista paventa persino uno Stato autoritario, - sia pure senza manganello - specie in seguito alla nuova Legge elettorale e al disegno di modifica istituzionale e costituzionale.

 

 

Letteradura sarda in campidolliu

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LITERADURA SARDA IN CAMPIDOLLlU

(De Frantziscu Casula, Roma 13/06/2014)

 

Sa die treighi 'e lampadas ocannu

in Campidolliu, a Roma, a cambarada

semus andaos pro sa presentada

de sa "Literadura ... " a importu mannu.

'Literadura e tzivilidade ... ", .

de Frantziscu Casula s'iscritore,

a sa Sardinna at torrau s'onore,

de sa cultura sarda, identidade.

 

Cun parentes, amigos, disterrados

e romanos in paghe e alligria,

s'anima sarda a fora nd'est bessìa

cun romanzos e versos pinturados.

In Campidolliu sa "Literadura ... "

de Frantziscu at mostrau su presente

e su colau de sa sarda zente

a campu abertu, fora 'e seportura.

 

E, pro la narrer che a s'iscritore:

su caddu dae tempus trobeìu ...

comente mai non si fit fuiu? ....

Ca fit presu a cadena e cun dolore.

Su caddu non podiat camminare

e su mere, mischinu, a chistionu

chene limba, ascurtande su padronu,

chene mamma e nen fizu a si chessare.

Totu teniant in podere issoro

sos balentes chi nos ant cumandau,

però su libru at iscoviau

torrande dinnidade, limba e coro.

 

S'annu batordighi cun bellu ammentu,

zoiosu Frantziscu nd'est ghirau

dae Campidolliu bene acumpanzau,

cun battimanos in afestamentu,

a sa Sardinna, terra isulana

chi nos at zenerau, mamma galana.

 

 

Frantziscu cun afetu Madalena Frau

In ocasione de su compleannu 7-6-2015

 

 

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Sas Pregadorias antigas

Posted on 12 giugno 2015

 

de Frantziscu Casula

Sete Cunferentzias, in limba sarda ebia, subra SAS PREGADORIAS ANTIGAS

(alle ore 16.30-19.30: a Genuri 17 giugno; Villamar 23 giugno; Sanluri 24 giugno: Pabillonis 2 luglio; Villacidro 13 luglio: Guspini 28 luglio: Serrenti 12 agosto).

 

1) Il risveglio dell'interesse culturale per la religiosità popolare.

L'interesse scientifico, culturale e linguistico per la religiosità popolare non è certo una  prerogativa di questi ultimi anni. Ma è altrettanto vero che da qualche decennio la produzione per quanto attiene alla religiosità si è fatta più intensa e più feconda. E' sufficiente scorrere i lavori di qualche decennio addietro per prender­ne atto. Ne sono prova e documento i lavori dello storico Gabriele de Rosa1, Paolo Giannoni2, P Secondin3 e, recentemente, del Cardinale Jóseph Ratzinger, ora Papa4

  Non mancano, anteriori a questi lavori, sicuri riferimenti anche in alcuni documenti del Vaticano II come nella "Sacrosanctum Concilium"sulla Sacra Liturgia e nella stessa "Lumen Gentium" al N° 13, la nota e celebre Costituzione dogmatica sulla Chiesa, o nel Magistero Pontificio quale la "Evangeli Nuntiandi" di Paolo VI dell'8 dicembre 1975 al V° 48.

  La religiosità popolare è, soprattutto Religione Cristiana, espressione d'una fede autentica che, seppur, talvolta, difettosa e manchevole, rimane ancorata al Vangelo e alle Sacre scritture, tanto che, lo stesso Card. Joseph Ratzinger, con autorità e sicurezza teologica scrive che se "La Religiosità Popolare venne ingiustamente sottovalutata e messa da parte da influenti correnti del periodo postconciliare", la stessa, in realtà, "e la forma fondamentale della fede. Qui la fede diventa vita, qui discende dalla ragione nel cuore, qui dà forma ad atteggiamenti morali e ad abitudini e plasma la sensibi­lità: qui la fede viene radicata nelle profondità dell'anima". E se "il pere­grinare appartiene alla Religiosità Popolare, ma proprio qui emerge come la Religiosità Popolare sia qualcosa di più che folklore e forma esteriore: essa è radicata nella Teologia, in quella profondità nella quale si incontra­no la Rivelazione di Dio e le forme più profonde della sensibilità umana che sono comuni agli uomini di tutte le culture"5 .

  La religiosità popolare in quest'ottica risulta "Una particolare assimilazione dal basso, da parte del popolo, del­l'annuncio cristiano fatto dall'Alto, con codici ufficiali colti"6.

2) Il risveglio dell'interesse per la religiosità popolare in Sardegna

Nell'ultimo Concilio Plenario Sardo, conclusosi agli inizi del 2000, il quarto documento sulla "Chiesa che è in Sardegna" prende in esame la specifica peculiarità della religiosità popolare nell'Isola e della sua singo­lare "sardità cristiana" ove trovano spazio e forte rilevanza le feste patronali, le sagre, la devozione mariana, nelle quali s'è inculturata e innerva­ta la "traditio o transmissio fidei" del nostro popolo. Il documento segna un nuovo interesse per questo tipo di religiosità: interesse peraltro fortemente presente nella società sarda che ha portato Istituzioni e singoli prima a scovare in vecchi archivi e poi a censire, recuperare e pubblicare una produzione letteraria popolare religiosa che altrimenti andrebbe persa o comunque non verrebbe conosciuta nè fruita da un pubblico vasto. Produzione che talvolta è caratterizzata da una cifra letteraria, linguistica e persino poetica di alta qualità.

  In Sardegna, il rinnovato interesse per la produzione religiosa e popolare in limba è da ricondurre soprattutto alla Legge regionale n.26 del 15 Ottobre 1977 su "La promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna" che ha permesso a Enti Locali, Scuole e Università, grazie anche ai finanziamenti messi a disposizione, di fare ricerca e pubblicare spesso delle vere e proprie "prendas", "tesori" letterari e artistici -o comunque linguistici- che rischiavano di rimanere sepolti, interrati e dimenticati in qualche scantinato o archivio polveroso e umido.

 

4) Contenuto, forma e finalità delle pregadorias.

a) Preghiere e Gosos

Le "Pregadorias" sono  costituite da lodi rivolte ai Santi -segnatamente ai Santi protettori dei singoli paesi- ai Martiri ma soprattutto a Gesù Cristo e alla Madonna; da preghiere innalzate in occasione delle Feste liturgiche cristiane, numerose quelle da recitare il Giovedì e Venerdi Santo, ma anche per far esaudire desideri (es: contro il malocchio e contro il mal di piedi) o per chiedere intercessioni, per esempio contro i temporali : Contra is stracias.

Molte preghiere servivano per scandire la giornata del fedele e del devoto. Tradizionalmente, ovvero nel passato infatti la preghiera non era confinata dentro precisi spazi di tempo e di luogo ma scandivano l'intera vita individuale e sociale. Così precedevano e accompagnavano le attività quotidiane della vita e dei momenti della giornata (dal risveglio alla sera. E nel contempo scandivano le tappe fondamentali dell'esistenza: dalla nascita alla morte: perché la fede era un tutt'uno con la vita.

Ci sono poi le Pregadorias sotto forma di Goccius (in campidanese), "Gosos" (in logudorese) o "Gosus" (un misto fra logudorese e campidanese). I Goggius sono delle antichissime composizioni poetiche religiose popolari in lingua sarda e, rispetto alla forma presentano schemi metrici ben definiti. La parola deriva dallo spagnolo goso e significa gaudio, gioia, canto festoso.

b) Finalità

Le finalità esplicite e dirette di queste "pregadorias" erano certo essenzialmente di natura religiosa, edificante e devozionale. Ed erano soprattutto catechesi: ovvero spiegazione, esegesi, commento e annunzio del messaggio del Vangelo e del depositum fidei, e non sicuramente letterarie, artistiche e poetiche.

c) Alcuni lacerti lirici

Queste comunque non sono del tutto assenti, specie in alcuni gosos e/o preghiere. Come non sono assenti le metafore

E' certo però che, in genere, nelle  Pregadorias più che lacerti lirici e poetici, sono presenti efficaci e stringenti scampoli di oratoria religiosa  finalizzati segnatamente a produrre forti emozioni e sensazioni nei fedeli: ma occorre tener presente che l'oratoria religiosa, specie in occasione di alcune Feste e ricorrenze liturgiche, (è il caso di Venerdì santo: il Giorno per eccellenza del Lutto cristiano) era sommamente apprezzata dai fedeli e dunque utilizzata copiosamente in tutta la tradizione cristiana, dalla Chiesa e dai suoi esponenti. E comunque solo una concezione schematica e riduttiva può separare rigidamente la poesia dall'oratoria o addirittura vedere in quest'ultima la negazione della poesia stessa -come sosteneva, sbagliando, Benedetto Croce- specie a proposito della poesia religiosa di Alessandro Manzoni, che non a caso aveva semplicemente e sostanzialmente ridotto a oratoria e dunque a "non poesia".

Conclusione

Al di là comunque del valore letterario e/o poetico o solo oratorio, lePregadorias costituiscono un consistente patrimonio religioso e culturale di grande valore ma pur anche un originale e prezioso documento sulla Lingua sarda, così turgida e ricca di risonanze latine, più di qualsiasi altra lingua romanza.

Le Sette Conferenze nei sette paesi del Medio Campidano intendono promuovere il recupero della memoria storica sarda, perché nulla vada perduto delle nostre radici storiche e culturali, ma rappresenta anche un contributo importante alla valorizzazione della Lingua sarda.

  Una Lingua, che fino a qualche decina di anni fa, una falsa e male intesa modernità e modernizzazione, voleva seppellire e interrare, come elemento residuale e inutile di una civiltà ormai scomparsa. Una Lingua che oggi invece, giustamente e opportunamente si inizia a dissotterrare, riscoprire, tutelare e valorizzare in quanto elemento costitutivo della storia e della civiltà sarda e dunque della nostra Identità culturale ma anche religiosa.

Note bibliografiche

1) in Che cos'è la Religiosità Popolare, Civiltà. Cattolica, 1979, II, pp. 114-119

2) in Fede, Religione, Religiosità, Torino, 1979 e  Fede Popolare, Torino, 1979, pp.  72-78,

3) in Attualità e complessità della Religiosità Popolare, Roma, 1975, pp. 11-37

4) in Il  Santo viaggio. Pellegrinaggio e vita cristiana,  Roma, 1999.

5) in  La presentazione al volu­me di Carlo Mazza, Santa è la vita, Pellegrinaggio e     vita cristiana. Bologna, 1999).

6in A. Amato, La figura di Gesù Cristo nella cultura contemporanea, Roma, 1980, pp.68-69  

 

 

Una giornata memorabile

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di Francesco Casula

Un fiume di emozioni. Straripanti da un mare di ricordi. De amentos de su tempus colau. Di quando eravamo pitzinnos alligros e sanos/sighinde jogu, iscola e cresia/preghiande a Zesusu e a Maria (dalla poesia di Michele Podda).

Quando Abiles semenatores/aratores,putatores/de sas prendas costoitas/vin sos Padres Gesuitas (dalla poesia di Gino Farris).

Una giornata memorabile per assaporare sa durcura 'e sa prima pitzinnia/cando biadu, mi sonni aia/orizzonte luntanos tintos d'oro  (dalla poesia di Santino Marteddu)

Siamo diventati nostalgici? Forse sì. Perché a dispetto dei realisti e cinici, la nostalgia - come scrive Borges - è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo passato. (E con la sua Terra).

Ma poi, il passato è passato del tutto? O non è ancora incarnato e incardinato nel nostro presente? Nella nostra cultura? Nel nostro fare, agire e pensare e non solo come memoria storica? Aggrappandosi con i suoi artigli alle nostre persone?

Avremmo noi potuto interrare, seppellire, rimuovere e dimenticare gli anni più belli della nostra adolescenza e giovinezza? Anni di studio matto e disperatissimo - per evocare un'espressione leopardiana - e insieme anni di altissimi ideali e sogni e speranze e progetti?

Bene, la giornata del 14 giugno scorso è stata una giornata memorabile: di ricordi e di emozioni. In 28  ex alunni dei Gesuiti ci siamo ritrovati a Cagliari: sardi e piemontesi. Con molti non ci si vedeva da 55/50 anni. Una vita. Dopo essere stati insieme, giorno e notte, gomito a gomito. A studiare, giocare, pregare. 

A Bonorva o a Cagliari. A Cuneo o a Torino. E persino ad Avigliana. Dove abbiamo messo le basi della nostra cultura. Del nostro essere omines e cristiani: nel senso più compiuto. A quel periodo, a quegli anni, strategici e determinanti per la nostra formazione, per la nostra crescita intellettuale e umana, dobbiamo interamente quello che poi ciascuno nella sua professione, siamo diventati.

Ci siamo ritrovati la mattina del 14 nella Chiesa di San Michele: di cui abbiamo ammirato la meravigliosa architettura esterna come l'interno a pianta ottagonale irregolare con quattro cappelle per lato, comunicanti tra loro che colpisce per la ricchezza delle decorazioni con gli elementi lapidei scolpiti, gli stucchi, gli affreschi e i marmi policromi.

Tre colte guide  ci hanno poi illustrato la sagrestia, edificata alla fine del Settecento, di forma rettangolare, in stile rococò ricchissima in arredi, pavimentazione, affreschi, portali e dipinti: tra questi sono degni di pregio i dipinti raffiguranti i Misteri del Rosario e le sculture in legno dell'artista sardo Giuseppe Antonio Lonis, rappresentanti i Misteri della Passione, che vengono portate in processione durante i riti della Settimana Santa.

Quindi la Messa, concelebrata da sei Gesuiti, fra cui Padre Enrico Deidda, cagliaritano e Padre Prefetto a Cagliari a fine anni '50 e tre nostri "compagni": i sardi Salvatore Zanda, di Desulo e attualmente "maestro" di spiritualità a Roma, Giampietro Cherchi di Villanova Monteleone ora ad Alghero e Antonino Taliano, piemontese, missionario in Madagascar.

La Messa è stata conclusa dal Canto in lingua sarda, suggestivo e struggente di Deus ti salvet Maria,

Dopo la Messa tutti a un Ristorante del Poetto di Cagliari: a gustare un delizioso pranzo a base di pesci ma soprattutto a conversare e a ricordare, emozionati, fatti, episodi, avventure di 50-55 anni fa, che hanno segnato in modo indelebile la nostra esistenza. E ancora continueranno a segnarla.

A condire e "innaffiare" il pranzo, oltre il vermentino e il cannonau, è stata la poesia sarda: di tre valenti poeti in limba, ex alunni e nostri "compagni": Santino Marteddu, Michele Podda e Gino Farris (di cui pubblichiamo i testi).

Dopo il pranzo un gruppo numeroso visita il Museo Archeologico Nazionale di Cagliariper ammirare i Giganti di Mont' 'e Prama.

 

Chiudo con un ringraziamento a tutti gli ex alunni (molti con rispettive consorti) che hanno voluto partecipare all'Incontro ma segnatamente voglio ringraziare i Gesuiti di San Michele, Ignazio Pinna e Stefano Bergesio che hanno fortissimamente voluto e organizzato l'iniziativa.

 

 Qui di seguito le poesie scritte da tre ex alunni appositamente per l'Incontro del 14 giugno a Cagliari: Santino Marteddu di Orotelli, Gino Farris di Lodè e Michele Podda di Ollolai.

 

Salude, amicos caros !

Salude, amicos caros ! Non podia

mancare a custu apellu e no m'isporo,

fintzas si como m'istracat su coro,

de che torrare ancora àtera 'ia.

A poi 'e sessant'annos ssaporo

sa durcura 'e sa prima pitzinnia,

cando, biadu, mi sonniaia,

orizontes luntanos tintos d'oro.

 

Comente e cando afranzo a nepodeddos

astringher bos cheria in amistade

pro bos intender su coro a tocheddos.

 

Sa forte emotzione,a custa edade,

leat respiros, tropeit faeddos,

ma su 'entu 'e s'amore, in libertade,

olat in artu supra a sos isteddos.

-

S'auguriu est chi, che frore 'e campu,

nascat a nou in tempus benidore

un'aterunu Innasssiu, in d'unu lampu.

E si non bastan a li dare onore

sos versos mios fatos mesu a trampu,

Deus e Santos l'apan in favore.

 

E pro nois, Sennore 'e su perdonu,

pro more 'e Giampietro chi at sichidu

sa 'oche Tua cando l'as mutidu,

irmentica s'ofesa e sias bonu !

 

Santino Marteddu

 

 

         ATTOPPU

 

 

Duas coseddas solu de sos chentu e chentu vonos ammentos de su tempus de sa pitzinnia colata in s'iscola de sos Padres Gesuitas. Bois de sicuru ammentates chi in cuss'iscola bi vini pitzinnos de guasi tottu sas iddas de sa Sardigna. B'it unu tzertu Salvatore Sechi de s'Alighera, romasu e longhiriddone, ma in s'iscola vit meta de memoria. Sa contierra chin mecus vit pro su vattu chi isse naraiat chi sa idda sua vit meta menzus de sa mea, jeo so de Lodè, no mi lassaia cumminghere e isse no la poniat chin Deus chi jeo no arepo crumpesu chi non b'aiat paragone tra s'Alighera e Lodè e jeo puru non crumpedia comente mai isse no aret crumpesu chi sa idda mea vit ed est sa menzus de su mundu. Ma sa situatzione s'est impeorata cando m'at natu chi in bidda mea vimos tottu prenos de machine. Jeo l'aio rispostu, comente rispondiat  un'omine saviu de idda, chi vit beru chi aiamos unu pacu de machine ca Deus nos l'aiat pathitu pacu a donzunu, imbetzes in bidda sua su machine l'aiat datu tottu a isse e in prus aia annantu chi a   bidere a isse gai romasu chi andaiat rue rue, in sa idda sua bi deviat aere peri gana. Nde l'amos finita in causa addainnatis de su Rettore e apo intu sa causa ca su Rettore,  omine de bonu sentzu, at sententziatu chi pro donzunu sa idda sua est sa menzus de su mundu. Dae sa die chin s'aligheresu, pitzinnu pacu crumpesu, no amos prus briatu,  ma sa erita li vringhiat e jeo bi godia, vimos creschende.

 

S'ateru ammentu curtzu curtzu est custu. Bois ammentates chi sas tràmutas dae unu locu a s'ateru ( dae sa cresia a s'istudiu, dae su refettoriu a su drommitoriu) deviana essere fattas chena vaeddare, mutos che pisches. Una orta o vortzis prus d'una,  s'ardia (su Prefetto) mi paret chi vit propiu Padre Deidda m'at sichitu in crimines. Sa punitzione vit: una die intrea chena manicare. Su manzanu e su mesudie nde l'apo affrontata discretamente, ma su sero e su notte sa gana pitzinnina m'at trebutatu tantu chi apo detzisu un'azzardu. Cando mi so abizatu chi s'ardia vit drommita ca corcaiat paris chin nois mi nde so pesatu dae lettu e a bellu a bellu so achirratu a su refettoriu. Ischia chi onzunu su sero lassaiat in d'una ispetzia de parastazu restos de pane pro lu manicare su manzanu imbeniente chin su caffellatte. Ischia ive vit postu e tzertu no ipo abaitande si vit tostu. M'apo prenatu sas pettorras de pane e so torratu lepiu comente un'umbra a su drommitoriu. Neune s'est sapitu de nudda e sa chena l'apo ata mancare a tardu in d'unu gabinetto, su locu non fit su prus adattu ma mi so thathatu. Su manzanu vit unu andali e beni de lamentas chin su Prefetto ca a metas mancaiat su pane ch'aian lassatu su sero prima. Non credo apan pessatu a soriches ma jeo, mutu che pische, no so mai istatu imputatu e nemmancu mi nde so ocatu a tempus colatu. Oje, lu conto ca  diamos narrere "il reato è prescritto" . Chin salute.

 

 

                                               SONETTO

                                     (Pro s'attoppu de sos apostolicos )

 

                                                               Unu pacu apo brullatu

                                      de su tempus ch'est colatu

                                      tempus vit de minorìa

                                      e de vona massarìa

 

                                      Abiles semenatores

                                      aratores, putatores

                                      de sas prendas costoitas

                                      vin sos Padres Gesuitas

                  

                                      Mai apo immenticatu

                                      sa cara risulana

                                      de Puggioni Padre amatu

 

                                      Tra sos santos collocatu

                                      intro luche soverana

                                      preco siat onoratu.

Gino Farris

                                              

 

BENEBENNIOS !

 

Benebènnios a sos de Continente

e a sos Tomasinos isolanos

dande de coro astrintas de manos

àteros annos torrande a sa mente

intrande in tempus como in su presente

tando pitzinnos alligros e sanos

sighinde jogu, iscola e cresia

preghiande a Zesusu e a Maria.

 

Cuddu terrazzu e cuddu campu mannu

brincos e curtas ja nd'an bidu duos

tando sos libros donzunu sos suos

affideaos po colare s'annu

imbenucraos in bancu o iscannu

de funtziones a fagher concruos

ostia cunfessione e pentimentu

donzi die nos daban su cuntentu.

 

Paret eris e sunu chimbant'annos

chi fimus semper paris notte e die

totus ordiminzande che a mie

in presse a crescher e fagher a mannos

a ponner cantu prima cuddos pannos

e mover in missione pro a chie

non fit a tretu de andare a chelu

no ischinde ite esseret Evanzelu.

 

A perdonare, Babbu Soberanu

si no amus sighidu sa mutida

cudda idea no l'amus traida

galu semus in cherta 'e ponner manu

po li porrire a donzi cristianu

azudu in custu mundu e in custa vida

a ponner paghes e fagher acontzos

belle chi semus preides iscontzos.

 

Benvenuti, a quelli del Continente/e agli ex S. Tomaso isolani/porgendo di cuore strette di mano/

richiamando alla mente altri tempi/avanzati con l'età al presente/allora ragazzi sani e spensierati/

a praticare gioco, scuola e chiesa/e a pregae Gesù e Maria.

 

Quella terrazza e quel grande campo/salti e corse ne han visto in quantità/poi i libri e lo studio individuale/impegnati a superare l'anno/inginocchiati in banchi o sedie/per assolvere ai doveri religiosi/

ostia confessione e pentimento/ogni giorno ci davano serenità.

 

Sembra ieri e sono cinquant'anni/che eravamo insieme giorno e notte/tutti a ripromettersi come me/

di crescere in fretta e diventare adulti/per indossare quanto prima quell'abito/e partire in missione in favore di chi/

non era in grado di conquistarsi il cielo/non avendo conoscenza del Vangelo.

 

Perdonaci, Signore Dio Padre/se non abbiamo seguito la chiamata/quell'idea non l'abbiamo abbandonata/

ancora cerchiamo di impegnarci/per porgere a tutte le persone/aiuto in questo mondo e in questa vita/

favorendo pace e aggiustamenti/anche se siamo preti mancati.

 

Micheli Podda

 

 


Colonialismo in Sardegna

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Colonialismo italiano in Sardegna:dagli

COLONIALISMO, sardegna,STORIA,Francesco Casula

 

www.dazebaonews.it

 

ROMA - La politica italiana nei confronti della Sardegna (e del Sud) è tutto giocata sul colonialismo interno. Fin dai primordi dell'Unità. Tanto che un neomeridionalista come Nicola Zitara, scriverà un libro dal titolo emblematico: L'Unità d'Italia- nascita di una colonia

Ma di "colonialismo" italiano parlerà anche Gramsci a più riprese: fra  l'altro scrivendone il 16 Aprile  1919 in un articolo dell'Avanti, avente per titolo "I dolori della Sardegna". 

"Nel cinquantennio 1860-1910 - scriveva -  lo Stato italiano nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché-aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato «spende» per l'Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale"? 

Proseguirà ricordando che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione  alle risorse di cui poteva disporre l'Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. "Il balzello" finiva così per "paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio". Lo stesso Gramsci il 14 Aprile del 1919, in un altro articolo, titolato significativamente "La Brigata Sassari" aveva parlato di sfruttamento coloniale della Sardegna da parte della classe borghese di Torino oltre che con le tasse sproporzionate, con la rapina delle risorse, segnatamente attraverso lo sfruttamento delle miniere e la distruzione delle foreste sarde. Soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, quando fu colpita a morte l'economia meridionale e quella sarda. UInfatti con la "guerra" delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato. Nel solo 1883 - ricorda lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi - erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l'intera economia sarda.

Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti. Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili. Discende bruscamente il prezzo del vino e del latte. E s'affrettano a sbarcare in Sardegna quelli che Gramsci chiama "Gli spogliatori di cadaveri". La prima categoria di tali "spogliatori" è quella degli industriali del formaggio. "I signori Castelli - scrive Gramsci - vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso) è semplice: al pastore che privo di potere contrattuale, deve fare i conti con chi gli affitta il pascolo e con l'esattore, l'industriale affitta i soldi per l'affitto  del pascolo, in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale".

Il prezzo del formaggio cresce ma va ai caseari e ai proprietari del pascolo o ai grandi allevatori non ai pastori che conducono una vita di stenti, aggravati dalle annate di siccità e dalle alluvioni:conseguenze del disboscamento della Sardegna, opera  di un'altra categoria di spogliatori di cadaveri: gli industriali del carbone. Il cui lascito per la Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L'Isola è ancora tutta boschi. Gli industriali - soprattutto toscani - ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi. "A un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza", scrive Gramsci.

Così - continua l'intellettuale di Ales -"L'Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un'invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche". 

Massajos ridotti in miseria dalla politica protezionista di Crispi e pastori spogliati dagli industriali caseari, s'affollano alla ricerca di un lavoro stabile nel bacino minerario del Sulcis Iglesiente. Dove troveranno altri spogliatori di cadaveri. Sono quelli che arrivano dalla Francia, dal Belgio e da Torino per un'attività di rapina delle risorse del sottosuolo. I Savoia per quattro soldi le daranno in concessione a pochi "briganti", in genere stranieri ma anche italiani.

"Essi si limiteranno - scrive Gramsci -  a pura attività di rapina dei minerali, alla semplice estrazione, senza paralleli impianti per la riduzione del greggio e senza industrie derivate e di trasformazione".

Nel ventennio del brutale regime fascista l'economia sarda si inabisserà ulteriormente: l'Isola continuerà ad essere considerata una colonia d'oltremare. "Più volte - scrive Carta-Raspi - Mussolini aveva fatto grandi promesse alla Sardegna e aveva pure stanziato un miliardo da stanziare in dieci anni. Era stato tutto fumo, anche perché né i ras né i gerarchi e i deputati isolani osarono chiedergli fede alle promesse".

Con la nuova Italia democratica, il colonialismo nei confronti della Sardegna continuerà: certo assumendo forme più sofisticate e meno brutali ma non per questo meno devastanti. Continuerà l'emigrazione e proprio in coincidenza con il boom economico dell'Italia degli anni '60. L'Isola sarà utilizzata come stazione di servizio per industrie nere e inquinanti: quelle petrolchimiche in primis. Senza per altro risolvere il problema dell'occupazione. E come area di servizio della guerra (con il 65 per cento di tutte le aree militarizzate in Italia). Con i Sardi privati del proprio territorio. Con 1/5 della costa sarda - ben 437 Km - vietata alla balneazione, specie a causa delle basi militari. Ed ora lo Stato e il Governo italiano, contro l'unanime opposizione dei Sardi, vorrebbero costringere l'Isola ad essere ricettacolo delle scorie nucleari. Trasformandola in un vero e proprio muntonargiu de aliga mala. Permanente e pericolosissima. 

 

 

La truffa dell'Unità d'Italia

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La truffa dell'Unità d'Italia e il mito di Garibaldi.

di Francesco Casula

Il 4 luglio scorso ricorreva il 208° Anniversario della nascita di Garibaldi. Fortunatamente, ci sono state risparmiate le ondate patriottarde che negli anni scorsi avevano alluvionato giornali e media. Ma covano sicuramente sotto la cenere. Quando invece, quello che occorre è iniziare a far le bucce al "Risorgimento" italiano e alla conseguente "Unità", senza essere tacciati di leghismo o, peggio, di essere etichettati come clericali, filoborbonici e dunque arretrati, regressivi e premoderni..

A questo proposito voglio ricordare - anche perché mi sembra molto illuminante - un curioso episodio. Negli anni '70 escono una serie di saggi, prevalentemente di giovani intellettuali e storici meridionali ( Nicola Zitara, Edmondo Maria Capecelatro, Antonio Carlo e altri).

Nei loro saggi attraverso una puntuale e rigorosa analisi socio-economica del Meridione preunitario, sostengono e dimostrano con dati e numeri inoppugnabili, (per esempio sull'industria agro-alimentare ma anche siderurgica nel Napoletano ma non solo) che al momento dell'Unità il divario Nord-Sud non esistesse (o comunque non fosse determinante) sicché a determinare il sottosviluppo del Sud sia stata l'azione politica dello Stato unitario, In altre parole sostengono che la dialettica sviluppo-sottosviluppo si sia instaurata nell'ambito di uno spazio economico unitario - quindi a unità d'Italia compiuta - dominato dalle leggi del capitale.

Tale tesi -  che si ricollega fra l'altro a una serie di studi sullo sviluppo ineguale del capitalismo, in modo particolare di Paul A. Baran, di Andre  Gunter-Frank e Samir Amin  - tende a porre in rilievo come la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instauri fra due realtà estranee o anche genericamente collegate, ma presuma uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è funzionale: in altri termini lo sviluppo di una parte è tutto giocato sul sottosviluppo dell'altra e viceversa e dunque il sottosviluppo del Sud è il risultato dello sviluppo capitalistico e non della sua assenza.

Zitara, Capecelatro e Antonio Carlo furono accusati e tacciati di "nostalgie borboniche". Perché? Per le differenti analisi - parzialmente anche rispetto a Gramsci -  sulla Questione Meridionale?

No: semplicemente perché avevano osato dissacrare quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista, del Risorgimento. Avevano osato mettere in dubbio e contestare le magnifiche sorti e progressive dello Stato unitario, sempre celebrato da chi a destra, a sinistra e a centro aveva sempre ritenuto che tutto si poteva criticare in Italia ma non l'Italia Unita e i suoi eroi risorgimentali.

Come spiegare diversamente - ma è solo un esempio - l'atteggiamento nei confronti di Garibaldi? Durante il ventennio fu santificato ed eletto "naturalmente" come padre putativo di Mussolini e del regime e dunque fu "fascista".  Dopo il fascismo, prima nel '48, alle elezioni politiche, la sua icona fu scelta come simbolo elettorale del Fronte popolare e dunque divenne socialcomunista. Negli anni 80 fu osannato da Spadolini - e dunque divenne repubblicano - "come il generale vittorioso, l'eroico comandante, l'ammiraglio delle flotte corsare e l'interprete di un movimento di liberazione e di redenzione per i popoli oppressi". Fu poi celebrato da Craxi - e dunque divenne socialista - "come il difensore della libertà e dell'emancipazione sociale che univa l'amore per la nazione con l'internazionalismo in difesa di tutti i popoli e di tutte le nazioni offese". Infine fu persino rivendicato da Piccoli che lo fece dunque diventare  democristiano.

    Ecco, è proprio questo unanimismo, questa unione sacra - destra, sinistra centro, tutti d'accordo -  intorno al Risorgimento e ai suoi personaggi simbolo, che non convince. E' questa intercambiabilità ideologica dei suoi "eroi" che rende sospetti. Ecco perché bisogna iniziare a fare le bucce al Risorgimento, ecco perché occorre iniziare a sottoporre a critica rigorosa e puntuale  tutta la pubblicistica tradizionale - ad iniziare dunque dai testi di storia - intorno a Garibaldi, liquidando una buona volta la retorica  celebrativa del Risorgimento. Per ristabilire, con un minimo di decenza un po' di verità storica occorrerebbe infatti, messa da parte l'agiografia e l'oleografia patriottarda italiota, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi: Bronte e Francavilla per esempio. Che. non sono si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l'Unità d'Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per "traslocare" manu militari, il popolo meridionale, dai Borboni ai Piemontesi. Altro che liberazione!

 Così l'Unità d'Italia si risolverà sostanzialmente nella "piemontesizzazione" della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri - da Cavour in primis - dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud - il blocco storico gramsciano - contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l'agricoltura e a favore dell'industria.

 

 

2° CONVEGNO SARDISTA A BOSA 29 ottobre 1967

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2° CONVEGNO SARDISTA A BOSA 29 ottobre 1967

Cari amici, 
ci riuniamo a Bosa, nelle accoglienti sale del Centro di Cultura Popolare dopo quattro mesi dal primo nostro mee­ting del 2 luglio per discutere la situazione politica sarda, per valutare le scelte operate dal nostro Partito sia dopo la crisi di febbraio, sia dopo il fallimento del­la cosiddetta politica contestativa. 
Voi sapete benissimo come la contestazione di Del Rio, la rivoluzione di luglio e gli avvenimenti suc­cessivi, soprattutto per la grinta dura mostrata dai padroni di Roma dei partiti metropolitani, siano approdati al porto della più grande beffa che il popolo sardo, in tutta la sua storia,abbia mai subito.
Il linguaggio aggressivo del Presidente Del Rio non corrispondeva e non corrisponde oggi a una pre­cisa volontà, sua e della Giunta di G0verno, di conqui­stare gli obiettivi che il famoso ordine del giorno-voto del Consiglio Regionale al Parlamento Italiano configu­rava. Il Governo italiano ha respinto tutte le richie­ste del popolo sardo, ha irriso con sprezzante paternalismo le istanze dei nostri legittimi rappresentanti, ha impedito al Presidente Del Rio, rappresentante elet­to del popolo sardo, di parlare alla sua gente per mezzo dello strumento più efficace: la radio.
E si è risolto tutto in un bagaglio inconsistente di promesse:
le solite promesse che da due secoli e mezzo piemontesi e italiani hanno fatto inalla in Sardegna, a questa vera e propria colonia, terra senza speranza di riscatto. Ed è per è per questo che oggi più che mai dobbiamo opporci al regime coloniale che che perdura, nonostante la concessione di una falsa autonomia.

 

Oggi il banditismo, la cui importanza è stata amplificata in Italia e nel resto d'Europa con sadica insistenza dalla stampa di ogni colore, coadiuvata questa dalla compiaciuta complicità della radio e della televisione del monopolio italiano, è assurto a problema nazio­nale. Ma cosa vuol dire oggi in Sardegna, in questa 
terra di conquista e di sfruttamento, questione di importanza nazionale?

 

Significa soltanto che gli organi dello Stato, valicando i limiti delle competenze costituzionali, calpestando anche i brandelli formali dello Statuto Speciale di Autonomia della Sardegna, si sentono in dovere di intervenire. E viene accusato, ormai indi­scriminatamente, il popolo sardo e la sua classe politica; la sua classe dirigente, le migliaia e migliaia di lavoratori: i morti di fame di villaggi e delle borgate lontane, coloro che vivono cioè di sussidi e di rimesse degli emigranti. 
Ecco che un governo debole e inetto, come quel­lo italiano di oggi, ricerca un alibi storico con una inchiesta parlamentare. Ma voi sapete tutti che fine han­no fatto le precedenti inchieste parlamentari. La Sarde­gna è rimasta quella di prima. Sempre più povera e abban­donata. Non a caso, cari amici, accuso formalmente il pre­potere italiano di genocidio delle genti sarde. Perché quando ai sardi si nega il diritto alla vita, non si in­terviene con i finanziamenti stabiliti dalla legge, ma si invia un corpo militare di polizia e di carabinieri per distruggere la piaga del banditismo, con il semplice ri­sultato di sottoporre le popolazioni ad angherie, a so­prusi, a minacce di ogni genere, ebbene, allora si agisce secondo i più brutali e odiosi sistemi coloniali. Si ripe­te l'errore della Francia in Algeria. E le province dell'Algeria settentrionale per chi non lo rammentasse, erano considerate territorio metropolitano con uno Statuto speciale di autonomia. E gli al­gerini, nonostante questa concessione suprema della Repub­blica francese,si sono ribellati, sino a cacciare i francesi dal loro territorio e conquistare così, col sacrifi­cio e col sangue, la piena libertà e l'indipendenza. Ma gli algerini erano fiancheggiati dagli altri popoli arabi, dai marocchini, dai tunisini, dai libici e dalla Lega Araba. La loro guerriglia era sorretta dalla simpatia dell'opinione pubblica mondiale e, nella stessa Francia, paese civile, larga parte della popolazione me­tropolitana, gli intellettuali e i potenti, parteggiava per la liberazione dell'antica colonia. Noi, che siamo nelle stesse condizioni dell'Algeria di allora, non abbiamo nessuno, né stati amici né lega araba né popoli che parlino la nostra lingua che ci appoggino, ci sostengano, e sposino la nostra causa. Noi siamo soli, terribilmente soli, alla mercé della prepotenza italiana, della polizia italiana, dei prefetti-governatori italiani. E in mezzo a noi fioriscono come le rose di maggio i traditori, l prezzolati, i venduti, i servitori del padrone d'oltremare. Tutto ciò dovrebbe consigliarci a desistere dal­la lotta. A lasciar cadere le istanze, condendole soltanto di qualche protesta lecita, civile, ma del tutto inutile e vana. Ma noi difendiamo il diritto del nostro popolo. Noi vogliamo liberare il nostro popolo dalle pastoie colonialiste, vogliamo soprattutto informare il nostro popolo e indicargli la via da percorrere per la sua effettiva resurrezione.

 

Non siamo degli illusi, cari amici, e abbiamo le nostre buone ragioni per parlarvi con questa schiettezza e durezza di linguaggio. Noi, proprio perché siamo sardi, e ci vantiamo di esserlo, siamo alieni da qualunque trasformismo, di tipo siculo-meridionale. Noi abbiamo sempre seguito questa linea politica. E questa è la linea di Bellieni, di Luigi Battista Puggioni, e di qualcuno che è qui presente e che ha sempre dato al Sardismo.
Noi dobbiamo diffondere queste nostre idee. Dobbiamo lottare perché anche nei centri più lontani si conosca questa che è una corrente di pensiero ben definita, chiara, responsabile. E' la linea autentica, dura forse, ma l'unica che oggi possiamo seguire. Senza compromessi con nessuno. Sia ben chiaro.
Se non ci opponiamo a questa situazione coloniale, nella quale l'Italia ci ha lasciato, il nostro compito diventa inutile, vuoto, improduttivo, ridicolo.
Ci chiamano separatisti. Con disprezzo e con malcelata ironia. Ebbene, se separatisti ci chiamano, noi possiamo fare di questo termine una bandiera e non soltanto uno spaventa-passeri per i nostri avversari politici.
La via dell'indipendenza è lunga, difficile, costellata di trabocchetti, di sofferenze, di rinunce, di amare delusioni, e - soprattutto - di sconfitte. Ma noi crediamo, dobbiamo credere, dobbiamo far credere anche i nostri fratelli. Illuminarli e cancellare le loro illusioni integrazioniste, spazzare il servilismo di sempre. Noi abbiamo il dovere di seguire questa linea, perché soltanto così non tradiremo il Sardismo, ma soprattutto serviremo il popolo sardo, questo piccolo grande popolo che ha paura di essere salvato da un avvenire pieno di caligine e di miseria. Questo popolo che vuole essere distrutto.
Noi lottiamo e lotteremo per la libertà della Sardegna. Con tutti i mezzi, con tutte le nostre forze. Non rinunciamo alla dignità di uomini liberi.
Viva la Sardegna. Viva la libertà.
Antonio Simon Mossa

 

 

Pastori

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I pastori? "Barbari scannatori di agnelli"

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08-pastoreFrancesco Casula

I pastori? Barbari scannatori di agnelli. La pastorizia? Ostacola il progresso e sopravvive con iniezioni di denaro pubblico. Gli estimatori del mondo agro-pastorale? Prezzolati cantori di un falso mito rurale Sono solo alcune delle lusinghiere espressioni nei confronti dei sardi da parte di una Società che vorrebbe realizzare in Sardegna una gigantesca centrale elettrica di pannelli solari termodinamici della potenza lorda di 55 MWe.

Come reagire davanti a tanta infamia e volgarità? La tentazione sarebbe quella di affidarsi all'antica saggezza sarda che attraverso un suo diciu ci consiglia: a paraulas maccas, origras surdas". Ovvero non dare ascolto alle scempiaggini dei nuovi predatori e speculatori. Anche perché sos orrios de burricu no nche pigant a chelu: i ragli degli asini non salgono in cielo. Ma dobbiamo sempre lasciar perdere? Far finta di niente? Io credo di no. Ma vediamo, analiticamente, la vicenda.

La società anglo-italo-sarda Flumini Mannu Limited (con sede a Londra e Macomer) vuole "affittare" per 30 anni 270 ettari (parte dei quali "demaniali") tra Villasor e Decimoputzu per realizzare una spianata di specchi per la produzione di energia con un investimento di 200 milioni di euro. Il progetto nel 2013 viene presentato al Ministero dell'Ambiente "corredato" da una serie di giudici e valutazioni - fra cui quelle cui abbiamo già accennato - su pastori ed economia pastorale.

Il rappresentante sardo, residente a Silanus, certo Luciano Lussorio Virdis, per conto della società parla della presenza in Sardegna di "un fronte contro le rinnovabili, come da nessuna parte... di un oscurantismo che difende rendite di posizione e interessi particolari". E poi "La pastorizia sarda da decenni ormai non è in grado di stare sul mercato contando soltanto sulle sue forze e sopravvive grazie a una pluriennale e costante assistenza finanziaria regionale, nazionale ed europea ... e ha impedito di utilizzare razionalmente il territorio, ha ostacolato lo sviluppo di altre attività quali l'agricoltura e il bosco e persino certe forme di turismo".

Di contro, il progetto della Flumini Mannu sarebbe la fonte di energia del futuro: non inquina, è silenzioso, deve sorgere su terre praticamente sterili, erose, poco sfruttate. Rappresenterebbe inoltre un futuro alternativo valorizzando importanti competenze industriali ancora presenti. Del resto, sostiene la Flumini Mannu, anche la Corte costituzionale la penserebbe così: la Consulta - afferma la società - "ritiene lo sviluppo del settore agricolo, al pari dell'ambiente, un settore soccombente, rispetto a quello delle energie rinnovabili".

Come si vede si tratta di tutto il ciarpame di vieti luoghi comuni tendenti a criminalizzare il pastore: ieri pastore= bandito e oggi pastore= scannatore di agnelli; di tutta la paccottiglia di trite banalità sulla pastorizia arretrata e assistita.. Sostiene Felice Floris, leader del Movimento Pastori. Sardi (MPS): chiediamo fondi? Sì ma poi diamo da mangiare alla gente, non facciamo affari sugli incentivi, generando energia dove consumiamo la metà di quella che produciamo. La pastorizia è in crisi? Certo. E gli altri comparti produttivi no?

Almeno il rappresentante sardo di Flumini Mannu dovrebbe conoscere la storia dei pastori. Sapere che pur con crisi e difficoltà immani, la pastorizia è stata storicamente l'unico comparto economico che ha sempre retto: anche a fronte degli Editti delle Chiudende, della la rottura dei Trattati doganali con la Francia con Crispi, della rovinosa e fallimentare industrializzazione, dello strozzinaggio delle banche, della lingua blu. Ha retto - e continua a reggere - perché si tratta dell'unica industria, endogena e autocentrata, che verticalizza la materia prima - il latte soprattutto - e crea un indotto che nessuna altra industria nell'Isola ha mai creato. L'unica "industria" legata al territorio e ai saperi tradizionali, diffusa ubiquitariamente, al contrario dell'industria per "poli". Che presiede, salvaguardia e difende l'ambiente, che è in forte simbiosi con la storia, la tradizione, la civiltà, la cultura e la lingua sarda.

In realtà l'attacco alla pastorizia e ai pastori è l'alibi dei nuovi furones per sequestrare e impadronirsi del territorio e della terra: l'unica vera ricchezza della Sardegna. Anche in questo caso, a conferma dell'antico adagio sardo, furat chie benit dae su mare. I ladroni vengono da fuori. Sunt istranzos. Sembra addirittura che fra i partner della Società Flumini Mannu vi siano sauditi e cinesi. Naturalmente anche questa volta - come sempre nella nostra storia - hanno bisogno degli elementi locali, di ascari. Come mediatori del colonialismo.

Certo promettono occupazione e benessere:. "Investiremo un miliardo, creeremo posti di lavoro" hanno scritto. Ma si tratta del drammatico déjà-vu.Vengono, s'intascano gli incentivi, fanno colossali profitti che s'involano fuori: poco importa se ieri a Milano con Rovelli e oggi magari a Londra o Pechino o a Riyāḍ. Lasciando nell'Isola non lavoro ma devastazione. La stessa Regione sarda infatti avrebbe individuato alcune contraddizioni nella descrizione dell'impatto sui terreni: all'inizio la Flumini Mannu aveva definito non necessari la bonifica ma poi - spiegano alla Regione - sarebbero spuntati alcuni ettari che verrebbero compromessi dai pannelli.

In tutta la vicenda occorre pèrò prendere atto di un elemento positivo: l'opposizione dei Sardi al progetto di sequestro del nostro territorio. Sono infatti contrari non solo i pastori e le Associazioni di categoria ma le popolazioni, gli Ambientalisti; i Consorzi di tutela (dell'agnello IGP, del pecorino romano: nella zona interessata al progetto ci sono importanti aziende casearie che godono dei marchi Dop e Igp e avrebbero solo svantaggi); il Corpo Forestale (che bolla come "esilaranti" le tesi di Flumini Mannu); l'Università di Sassari; la Soprintendenza.

Ha espresso parere negativo la stessa Regione. Ma in ultima analisi, le competenze sulla decisione finale, spettano a Roma. Alla faccia dell'Autonomia speciale!

 

 

Cittadini Italiani di nazionalità sarda

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Cittadini italiani di nazionalità sarda

16 settembre 2015

caterino murinoFrancesco Casula

L'attrice sarda Caterina Murino, intervistata il 30 agosto scorso da una TV, alla domanda della conduttrice :"È vero che tu non ti consideri Italiana?" risponde:" assolutamente, non sono Italiana sono Sarda".
In realtà l'affermazione della Murino può sorprendere solo chi si attarda a confondere Stato con Nazione. Noi infatti siamo cittadini italiani - sia pure obtorto collo e senza avere mai scelto di esserlo - ma di nazionalità sarda.
Oltretutto il "sentimento" della Murino è largamente presente fra i sardi. Ricordo che nel 2012, in un sondaggio (curato dall'Università di Cagliari e da quella di Edimburgo e finanziato dalla Regione sarda, circa l'atteggiamento dei Sardi nei confronti della propria identità) era emerso che il 27% si sente sardo e non italiano; il 38% più sardo che italiano; il 31% tanto l'uno che l'altro e solo il 3% più italiano che sardo e l'1% esclusivamente italiano.
Ma si tratta solo di un "sentimento", di un "umore"? O, meglio, di un ri-sentimento e di un mal-umore nei confronti dello Stato italiano, storicamente ostile nei confronti dell'Isola? O sta maturando una nuova consapevolezza e coscienza della propria "diversità" e "specificità" e persino dell'essere "Nazione"? Io credo di sì. E viene da lontano.
La Sardegna, storicamente, è entrata, coattivamente, nell'orbita italiana - a parte la parentesi pisana e genovese nei secoli XI-XIII - solo agli inizi del 1700 quando viene ceduta al Piemonte, per un baratto di guerra. Per il resto ha avuto una etno-storia, peculiare e dissonante rispetto alla coeva storia italiana ed europea.
L'espressione "nazione sarda" comincia a ricorrere con frequenza e poi sempre più insistentemente in documenti (trattati e carte diplomatiche) che accompagnano le relazioni e i conflitti fra il Giudicato di Arborea e il regno d'Aragona.
L'uso del termine nazione sarda è comprovato dalle carte della corona di Arborea e sarà alla base di quel monumento storico, giuridico e linguistico della Carta de Logu.
La lotta sanguinosa fra naciò sardesca e naciò catalana non si può però considerare chiusa con la battaglia di Sanluri: infatti, affermatosi definitivamente il dominio aragonese a seguito della sconfitta dell'ultimo marchese di Oristano Leonardo Alagon, la contrapposizione fra naciò sarda e naciò catalana non scompare.
L'intellighenzia isolana, dal canto suo, se una parte rimane accecata di fronte agli splendori dell'impero spagnolo e da ascara si prostra servilmente ad esso ed evita con grande cura lo stesso termine di nazione sarda, il poeta Araolla alle lingue castigliana e catalana contrappose la lingua sarda con cui si inizia a delineare un embrionale coscienza del rapporto fra nazione e lingua. Che sarà ancor più forte nello scrittore Gian Matteo Garipa:"Totas sas nationes iscrien & istampan libros in sas proprias limbas naturales insoro...disijande eduncas de ponner in platica s'iscrier in sardu pro utile de sos qui non sun platicos in ateras limbas, presento assos sardos compatriotas mios custu libru".
Invito a notare i termini, estremamente chiari e significativi: parla di lingua naturale - oggi diremmo materna - che tutte le nazioni, compresa la sarda, hanno il diritto-dovere di utilizzare per rivolgersi ai "compatrioti", ovvero ai sardi, abitanti dunque della stessa "patria".
Ma è soprattutto alla fine del '700, nel vivo dello scontro politico e sociale che prende sempre più corpo l'idea di nazione sarda. Ad iniziare dal triennio rivoluzionario che vedrà protagonista principale Giovanni Maria Angioy quando i Sardi, prendono coscienza di sé e del proprio essere "popolo" e "nazione", prima quando si battono con successo contro l'invasione francese poi quando cacciano i piemontesi da Cagliari il 28 Aprile 1794.
Il senso di "appartenenza" e di "nazione sarda" sarà fortemente presente nella stampa e negli scritti di quel periodo di grandi cambiamenti. Ancor più forte sarà il sentimento di "popolo sardo" e di "comunità nazionale" nell'Inno di Francesco Ignazio Mannu Su patriota sardu a sos feudatarios , in cui l'istanza dell'abolizione del giogo feudale si coniuga con un atteggiamento anticoloniale e un sentimento nazionale sardo.
E ancor più chiaramente tale "Identità sarda" emerge nel Memoriale di Angioy in cui l'Alternos cerca di cogliere e di interpretare i tratti distintivi, peculiari e originali della individualità sarda, cominciando dal quadro geografico e morfologico, proseguendo con cenni sugli usi, i costumi, le tradizioni, i rapporti comunitari. Con approdo dell'esperienza e della riflessione angioyna nell'esilio parigino a una repubblica sarda indipendente.
L'ingresso della Sardegna nella compagine statale unitaria, la conseguente imposizione dell'uniformismo centralistico da parte dello Stato italiano non porta alla completa omologazione o alla scomparsa di quella forte caratterizzazione individuale dell'Isola che viene messa in rilievo soprattutto nella memorialistica della seconda metà dell'Ottocento. Ma che soprattutto emergerà sul fronte nel primo conflitto mondiale con la Brigata Sassari.
A questo proposito infatti - scrive Lilliu - "Forse sarebbe utile approfondire l'analisi delle gesta belliche della Brigata Sassari nella penultima grande guerra, demitizzandola nel ruolo assegnatole dalla politica e dalla storiografia nazionalistica e fascista, di fedele e strenuo campione di amor patrio italiano. Resistendo sui monti del Grappa, guidati e formati ideologicamente da ufficiali, come Lussu, nei quali urgevano violentemente, sino a forme ritenute quasi di indipendentismo, le istanze dell'autonomia isolane, i fanti della Brigata, combattendo contro lo straniero austro-ungarico-tedesco, riassumevano tutti gli antichi combattimenti contro tutti gli stranieri conquistatori colonizzatori e sfruttatori della loro terra, comprendendo fra essi, forse gli stessi "piemontesi", fondatori dello stato centralista e unitarista italiano. In tal senso, il momento della Brigata, può essere ritenuto una trasposizione in suolo nazionale della resistenza sarda di secoli".

 

 

Intervista al Prof. Casula 1 parte

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Francesco Casula (parte I
21 settembre 2015 Letto 142 volte.
di Manuela Orrù

La scorsa primavera si è tenuto nei locali di via Rosselli, organizzato dall’UNITRE di Serramanna, il corso gratuito “Imparai su sardu. In sardu”. Mentore del corso l’inossidabile ed entusiasta professor Francesco Casula da Ollolai. Interessato e curioso anche il discreto gruppo di allievi, tutti over 40, impazienti di imparare o anche solo migliorare la conoscenza della lingua sarda. Il professore, oltre alle regole di grammatica, sintassi e morfologia, ci porta a conoscenza di fatti storici spesso ignorati dai sardi, di libri e poesie scritti in limba che ci rivelano la ricchezza e la capacità espressiva della lingua dei nostri avi. Ed è durante una di queste lezioni che mi viene l’idea di una intervista al professore, il quale si dimostra subito disponibile e gentilissimo. Quella che oggi pubblichiamo è una prima parte, sette domande e risposte delle undici totali. Abbiamo pensato di dividerla perché le risposte, tutte interessanti, necessitano di una riflessione da parte di ogni sardo che si senta tale. Confesso che l’unico rammarico è che il tutto si sia svolto per via telematica, mentre avrei preferito un incontro frontale capace di far emergere emozioni e “sentidusu” che la distanza nasconde. Ma non è detto che ciò non accada in un futuro prossimo. Buona lettura a tutti e se ne nascerà un vivace dibattito, tutti avremo occasione di acquisire maggiore consapevolezza sull’essere abitanti di questa terra chiamata SarDegna.

Intervista Parte I

1) Quando e perché ha deciso che la divulgazione della lingua e della storia della Sardegna sarebbero diventate una sua attività?

Le radici sono da ricondurre alla mia attività di docente nei licei e nelle scuole superiori. Quando – nella scuola italiana in Sardegna – ho avuto modo di sperimentare una impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della storia locale, ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda. Che ha prodotto effetti devastanti negli studenti e nei giovani in genere, in modo particolare attraverso la smemorizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra le più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel meraviglioso codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Ma c’è di più: una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi  e categorie che le “grandi civiltà” avrebbero voluto irradiare verso le “civiltà inferiori”, ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli. Di tale appiattimento, una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica.

Nasce da questo contesto e da questa temperie pedagogica-didattica la mia scelta prima di insegnare la lingua sarda e la storia locale a scuola e in seguito di divulgarle, come tutt’ora faccio, dovunque posso. Perché i Sardi, partendo da radici robuste, – che solo la nostra lingua e la conoscenza della nostra storia può crearci – possano dotarsi di ali, altrettanto robuste, per volare alti nel mondo.

2) Ha senso oggi parlare di identità sarda?

Oggi più di ieri ha senso parlare di Identità sarda. Partendo dalla  convinzione e dalla consapevolezza che la standardizzazione e  l’omologazione, insomma la reductio ad unum, rappresenta una catastrofe e una disfatta, economica e sociale ancor prima che culturale, per gli individui e per i popoli. Di qui la necessità della valorizzazione e dell’esaltazione delle diversità, ovvero delle specifiche “Identità”: certo per aprirci e guardare al futuro e non per rifugiarci nostalgicamente in una civiltà che non c’è più; per intraprendere, come Comunità sarda, il recupero della nostra prospettiva esistenziale: la comunità e i suoi codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità. E insieme per percorrere una “via locale” alla prosperità e al benessere e partecipare così, nell’interdipendenza, agli scambi e ai rapporti economici e culturali.

3) Di cosa hanno bisogno i sardi per recuperare o, se vuole, per non dimenticare la loro identità?

Hanno soprattutto bisogno di conoscere la loro storia. La storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e Identità collettiva e individuale: nessun individuo come nessun popolo può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua Identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale. Un filo ben preciso lega il nostro essere presente al passato: il filo della nostra identità e specificità, come individui e come comunità. Se non fossimo diversi non potremmo neppure dialogare, confrontarci, conoscere. La diversità ci salva dalla omologazione–standardizzazione

sardegna

4) Per anni ci siamo vergognati del nostro accento, della nostra lingua, in una parola vergognati di essere sardi. Oggi è ancora così o qualcosa sta cambiando?

Sia pure in modo ancora insufficiente, qualcosa inizia a cambiare nelle coscienze e nell’immaginario collettivo dei Sardi. Il senso di “vergogna di sé” è ancora forte e presente ma inizia ad essere incrinato.

5) Lei si è occupato di politica, di sindacato, di insegnamento: ritiene che queste tre attività siano capaci di dare risposte e opportunità ai sardi?

Finora il ruolo della politica come quello del Sindacato e della Scuola è stato gravemente insufficiente. Per responsabilità anche della “base”, di noi cittadini che avremmo dovuto essere più attivi, più protagonisti: tallonando continuamente politici, sindacati e scuola. E’ invece prevalsa la logica della delega, della de-responsabilità. Per cui molto spesso la politica è diventata affarismo, il Sindacato ha abbandonato il ruolo di difensore degli interessi dei lavoratori e la Scuola – come sosteneva Pier Paolo Pasolini – trasmettitrice di“residui retorici” e non creatrice e divulgatrice di cultura critica.

6) Secondo lei perché l’indipendenza e l’autonomia ci fanno paura? E perché sono diventate per i sardi parole vuote di significato?

Non sono parole vuole ma rischiano di esserlo. Nella misura in cui non riusciamo a riempirle di contenuti, progetti, visioni. Ci fanno paura? Non direi. E se così fosse è perché siamo stati abituati all’assistenzialismo dello Stato, senza il quale pensiamo che non ce la possiamo fare. Siamo tutt’ora convinti di essere dei nani che “aspettano giganti che li portino sulle spalle” (Marcello Fois in Dura Madre,pagina 192). Ma i giganti non esistono. E caso mai li abbiamo avuti noi i Giganti! Non dobbiamo cercarli altrove.

7) Lei oggi vive a Cagliari: eppure i festival letterari, le iniziative culturali partono quasi sempre dai piccoli centri. La provincia, is biddas, tengono vivo l’humus culturale dell’isola?

Condivido. Sono soprattutto is biddas a tenere vivo l’humus culturale identitario della nostra Isola. Così peraltro è stato nella nostra millenaria storia: con nostri paesi che hanno prodotto non solo cultura materiale (soprattutto agro-pastorizia) ma anche cultura immateriale.

Ricordo quanto scrive Bachisio Bandinu, forse l’intellettuale sardo più acuto e prestigioso:”Il pastoralismo ha dato vita all’intellettualità sarda. Proviamo a unire gli spezzoni della Sardegna a caratterizzazione pastorale a partire da Emilio Lussu e i cosiddetti re pastori di Armungia per arrivare in Ogliastra, Barbagia, Mandrolisai, Marghine, Logudoro e non solo. Pensiamo a Peppino Mereu, Mossa, Cubeddu, Murenu, la poesia orale degli improvvisatori, Deledda, Cambosu, Sebastiano e Salvatore Satta, Nivola, Ballero, Ciusa, i grandi avvocati nuoresi, Mastino, Oggianu, Pinna per non parlare di Antonio Pigliaru, di Michelangelo Pira e Antonello Satta. In senso antropologico vengono tutti dal mondo pastorale, escludiamo questa gente e vediamo cosa resta”.

La parte II verrà pubblicata a breve…

Fuori Carlo Felice con tutti i Savoia dalla toponomastica sarda

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Fuori Carlo Felice con tutti i Savoia dalla toponomastica sarda

1 ottobre 2015

carlo_felice_interoFrancesco Casula

Un filo monarchico sardo, pateticamente nostalgico dei Savoia, in una lettera all'Unione Sarda propone che Cagliari dedichi una via all'ex re Umberto II. Replicano numerosi lettori del Quotidiano contestando vivamente tale proposta e ricordando le gravi responsabilità storiche dei sovrani nizzardi, ad iniziare proprio da quelle dell'ultimo re d'Italia e suggerendo di contro, di intitolare invece una via della capitale sarda a Luigi Cogodi.

Antonio Ghiani - già valente giornalista dell'Unione - scrive che "i sardi dovrebbero averne abbastanza dei Savoia e della loro infausta collaborazione con il fascio, conclusasi infine con una ignominiosa fuga, quando l'Italia, persa la guerra, era nel caos".

Altri ricordano opportunamente la funesta politica dei Savoia tutta giocata sulla discriminazione dei sardi, la repressione e le condanne a morte ma sopratutto il brutale fiscalismo. Aumentato a dismisura dal 1799 al 1816, con la presenza della Corte savoiarda a Cagliari, in seguito all'occupazione dell'Italia settentrionale da parte di Napoleone. Nei 17 anni della presenza a Cagliari dei Savoia infatti "furono complessivamente pagate - scrive lo storico sardo Aldo Accardo - come contribuzioni straordinarie per la corte 9.714.514 lire sarde: dal 1799 373.000 ogni anno per l'appannaggio della famiglia reale;dal 1805 oltre 76.750 per lo spillatico della regina". E ciò mentre l'Isola vive sulla propria pelle una gravissima crisi economica e finanziaria: certo conseguenza delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni ma anche di una politica e di un'amministrazione forsennata da parte dei Savoia, specie, ripeto, con l'aumento delle tasse.

Il peso delle nuove imposizioni fiscali, colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto - scrive Girolamo Sotgiu - che "i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d'impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila". Così succedeva che "Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta" .

Il protagonista fondamentale della politica savoiarda di questo periodo è Carlo Felice, più noto come Carlo feroce: l'epiteto gli fu affibbiato da un suo conterraneo piemontese, Angelo Brofferio, letterato e critico teatrale. Ebbene Carlo Felice, fu viceré e poi re, ottuso e inetto, sanguinario e famelico (pensava ad accumulare il suo "privato tesoro" mentre le carestie decimavano le popolazioni affamate). Su di lui la storia ha già emesso la sua condanna inappellabile.

Lo storico Pietro Martini, pur di orientamento monarchico, lo descrive come gaudente parassita, gretto, che avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi... servo dei ministri ma più dei cortigiani. Ai feudatari, da viceré, - scrive, un altro storico sardo Raimondo Carta Raspi - diede carta bianca per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l'epiteto di carnefice e giudice dei suoi concittadini.

Divenuto re con l'abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: "con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l'iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll'enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo": è ancora Pietro Martini a scriverlo.

Carlo Felice odia i sardi: il suo maestro, in tal senso è il reazionario Giuseppe de Maistre che arrivato in Sardegna nel 1800 per reggere la reale cancelleria, non pensa nei tre anni di reggenza, che ai propri interessi denotando uno sviscerato disprezzo per i sardi je ne connais rien dans l'univers au-dessous (sotto) des molentes, soleva affermare nei loro confronti e in una lettera da Pietroburgo al Ministro Rossi nel 1805 scrive : Le sarde est plus savage che le savage, car le savage ne connait la lumiere e le Sarde la connait.

Altro che dedicare allora un'altra via alla odiosa zenia dei Savoia: all'ordine del giorno in Sardegna vi è l'urgenza e la necessità di modificare radicalmente la toponomastica, facendo sloggiare da tutte le strade e le piazze dell'Isola tutti i Savoia, ad iniziare da Carlo feroce. A meno che non si voglia continuare con un imperdonabile masochismo, ricordando e osannando, quelli che sono stati per la Sardegna i persecutori  e i sovrani più nefasti.

E' stato scritto che con i Savoia la Sardegna è stata liberata dal feudalesimo e dunque "modernizzata". E sia. Purché non si dimentichi che l'eversione dei feudi giovò ai feudatari spagnoli e piemontesi ai quali le terre furono generosamente pagate dalle comunità, dissanguate due volte! Non di restituzione delle terre alle comunità si trattò dunque, ma di un ulteriore esproprio. Anche perché le terre distribuite a così caro prezzo ai contadini e pastori delle ville, privi di capitali e degli stessi arnesi di lavoro (aratri, zappe, falci e cavalli e buoi), caddero ben presto nelle mani di usurai senza scrupoli diventati in breve più esosi, se possibile, dei vecchi padroni.

E' stato anche scritto che ai Savoia si deve comunque in gran parte la costruzione dello Stato italiano unitario. E sia anche questo. Purché si ricordi che l'Unità d'Italia sarà (e ancora è) tutta giocata, per quanto ci riguarda, contro gli interessi della Sardegna ridotta a "colonia" interna: oggi  area di servizio della guerra e domani ricettacolo delle scorie nucleari?

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I VIAGGIATORI ITALIANI E STRANIERI IN SARDEGNA

parte seconda

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L'inglese Edwardes consegna, attraverso pagine ora irreali ora scrupolose, ma quasi sempre appassionate, l'immagine della Sardegna all'Europa. Fra gli inglesi che visitarono la Sardegna nell´Ottocento, Charles Edwardes occupa infatti un posto del tutto particolare. La sua curiosità, si esercita in direzione non solo del paesaggio, ma anche della gente dell´Isola, delle differenze fra i cittadini e le popolazioni dell´interno. Il suo resoconto di viaggio assume così il senso e il significato di un continuo confronto di uomini e mentalità, alla ricerca del volto autentico dei Sardi.
Bechi invece, militare e scrittore, nel libro La caccia grossa, descrive episodi di "caccia" al bandito, come fosse un cinghiale selvatico, rivelando una mentalità coloniale,poliziesca e inumana.
Roissard de Bellet, nobile francese, pur trattenendosi in Sardegna qualche settimana appena scrive il suo libro sull'Isola dando molto risalto alla storia e, segnatamente, alla storia dei nuraghi, ai costumi e alle tradizioni dei Sardi ma soprattutto alle miniere, il vero interesse del barone francese, settore peraltro in cui mostra grandi conoscenze. La Sardegna - secondo De Bellet - è ricca di molti minerali fra cui la galena, la blenda, la pirite, le cerusite, l'ematite,il nickel, il cobalto. Ma anche di piombo, zinco argento. Sono inoltre presenti sorgenti minerali di acque alcaline, iodate, sulfuree, acidule. 
Ma forse la sua annotazione più importante e significativa è il riconoscimento di una Letteratura sarda::"Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica".
Bontempelli, nelle sette pagine che dedica alla Sardegna nel suo libro Stato di grazia, racconta il suo viaggio a cavallo per i paesi dell'interno, della Barbagia di Ollolai. Ma si tratta di una descrizione che niente ha a che vedere con la realtà effettuale dell'Isola, piuttosto rientra nella sua "poetica", nel suo realismo magico, governato dalla immaginazione e dalla fantasia, così come lo aveva teorizzato in varie opere.
L'inglese Flitch, approda in Sardegna alla fine di un tour nelle Isole del Mediterraneo. Descrive un'Isola un po' troppo di maniera ma emerge anche una umanità diversa e inedita; una borghesia vista in un modo scanzonato, gli abitanti dei sottani cagliaritani descritti nella loro primitività, la gente osservata con acutezza, nei suoi pregi e nei suoi difetti.
Il siciliano Savarese, in forma essenziale e con un taglio giornalistico, racconta aspetti segreti o poco noti della terra sarda : un lembo di terra ancora umido di una freschezza verginale. In tale narrazione Savarese, che intuisce i cambiamenti che stanno per investire l'Isola, evidenzia una forte preoccupazione che, riletta a posteriori, si rivela premonitrice di una situazione ancora oggi molto attuale.
Lawrence nel suo libro Sea and Sardinia (Mare e Sardegna), descrive una Sardegna in cui è presente l'elemento autobiografico, il culto per la natura intatta e selvaggia e la primigenia istintività, l'esaltazione dei rapporti fisici visti come manifestazione vitalistica di somma importanza, la filosofia del racconto mitico basata sulla sua visione del cosmo e delle pulsioni vitali dell'uomo.
Wagner, dopo aver visitato la Sardegna in lungo e in largo, per studiare la lingua sarda e le tradizioni popolari, ci ha lasciato opere monumentali come il Dizionario etimologico sardo, La Lingua sarda i La vita rustica mentre, di contro, l'archeologo inglese Harden, non solo ci insulta, (parla di Sardegna, regione sempre retrograda) ma ci racconta un mucchio di balle storiche, archeologiche e linguistiche.
Il giornalista Virgilio Lilli, nel suo Viaggio in Sardegna ci consegna intatto il fascino dell'improvvisazione, tipico del reportage giornalistico; in questa circostanza l'esperienza di Lilli pittore e fotografo si somma a quella dello scrittore, che coglie gli aspetti più suggestivi dell'Isola come attraverso una serie di brevi ma intensi flashes; mentre il libro sulla Sardegna di Vittorini, che ha lo stesso titolo, Viaggio in Sardegna appunto, come scrive Geno Pampaloni, lo possiamo considerare un reportage e...un libro composito: un po' poema in prosa, un po' recensione di paesaggi e figure, un po' aneddotica di racconto, un po' (è il tono dominante) lirica moralità: una forma nuova per Vittorini e a lui subito congeniale. 
Un altro grande scrittore italiano invece, Carlo Levi in Tutto il miele è finito descrive una Sardegna di pietre e di pasto¬ri, e di uomini moderni e vivi. Corriamo così attraverso imma¬gini rapidissime, dove ogni momento è gremito di visioni. Tro¬viamo le querce e i prati di asfodeli, i pipistrelli delle domus de janas, le greggi, le sacre capre mannalittas, i nuraghi, le roc¬ce e il mare, e il Sopramonte deserto e feroce; gli operai, gli emigranti, gli uomini, e l'incedere divino delle antiche donne¬regine:così viene presentato dalla casa editrice Einaudi il suo libro.
Il francese Le Lannou considera la Sardegna come un grande mosaico di terra, le cui tessere siano state furiosamente scompigliate. E la montagna sarda è tutta paccata, fessurata, divisa da grandi gote, un tempo pressoché invalicabili. Una montagna difficile, aspra, severa: una montagna vera. Questa durezza della tettonica sarda ha anche avuto due conseguenze storiche, che hanno operato direttamente sulle vicende e il caratteri del sardi: ha isolato i villaggi l'uno dall'altro, alimentando nei secoli la disunione e l'estraneità fra gruppi pure contigui (dunque, impedendo la nascita di una più vasta unità "nazional-regionale") e, secondo, ha isolato la montagna dal resto dell'isola, rendendone difficili gli accessi e spesso negando alta montagna più frequenti contatti con le pianure "civilizzate".
Infine, l'ultimo "viaggiatore" e osservatore della Sardegna e delle cose sarde, che presentiamo in questo volume, l'italiano Cagnetta, in Banditi a Orgosolo, denuncia lo sfruttamento, la repressione poliziesca e nel contempo l'espropriazione etno-culturale, operate dallo Stato italiano, segnatamente nei confronti dell'area barbaricina, di cui Orgosolo è solo l'esempio paradigmatico. 

.I VIAGGIATORI ITALIANI E STRANIERI IN SARDEGNA (Alfa Editrice-2015)

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I VIAGGIATORI ITALIANI E STRANIERI IN SARDEGNA (Alfa Editrice-2015)
di Francesco Casula

L'opera contiene la testimonianza di 37 personaggi (18 italiani e 19 stranieri:tedeschi, francesi, inglesi) che visitano la Sardegna (fuorché i primi due di cui si parla nel libro;Cicerone e Dante) e sulla nostra Isola scrivono.
Sono soprattutto scrittori, romanzieri e giornalisti (ricordo fra gli altri Honoré de Balzac e Vittorini, Levi e Lawrence, Valery e Bontempelli Savarese e Lilli); ma anche linguisti (Wagner) e letterati (Boullier), politici (Cattaneo, De Bellet) e antropologi (Mantegazza e Cagnetta), docenti universitari (Gemelli e Le Lannou), militari (La Marmora e Smyth, Domenech e Bechi), ecclesiastici (il pastore protestante Fuos e il gesuita Padre Bresciani), nobili (Francesco d'Este, Von Maltzan.), archeologi (Harden) e fotografi (Delessert), imprenditori (Tennant).
I giudizi e le valutazioni sulla Sardegna e sui sardi sono i più vari
Quelli di Cicerone sono infamanti e insultanti: i Sardi sono dipinti come ladroni con la mastruca (mastrucati latrunculi), inaffidabili e disonesti la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire: la loro inaffidabilità - secondo l'oratore romano - viene da lontano, dalle loro stesse radici che sono rappresentate dai Fenici e dai Cartaginesi. Di qui l'accusa più grave, oggi diremmo "razzistica": dal momento che nulla di puro c'è stato in questa gente nemmeno all'o¬rigine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?.
Per Dante - per cui nessun isolano è degno di stare in Paradiso, molti invece vengono collocati nell'Inferno - i Sardi, fra tutti i Latini, sembrano proprio gli unici a non disporre di un proprio volgare imitando la grammatica latina come le scimmie imitano gli uomini!
Con il Seicento e Settecento gli scritti di viaggio ebbero un ruolo importante di fonte documentaria: coloro che visitavano l'Isola erano funzionari del governo spagnolo e sabaudo, incaricati di rilevare le condizioni generali dell'isola. I "forestieri" che hanno visitato la Sardegna, a partire dal primo Seicento con il canonico Martin Carrillo, visitatore Generale di Filippo II, e il mercedario Tirso de Molina, hanno però messo in luce nelle loro opere anche aspetti inediti dell'Isola, a volte contradditori, a volte carichi di fascino.
Le opere che questi produssero erano comunque, almeno nel '700, per lo più di carattere amministrativo-economico, mentre era scarsa l'attenzione sociale e culturale. Quelle opere ci fanno conoscere il punto di vista dei piemontesi negli anni in cui la Sardegna era sotto il dominio sabaudo. Mettevano in evidenza la distanza, anche culturale, fra due paesi che si erano trovati sotto uno stesso regno ma in un rapporto non paritario, ma tra dominanti e dominati. A tale proposito, alla fine del 1700 Fuos, pastore luterano tedesco, scrisse che era il governo piemontese a mantenere l'isola debole e povera per poterla più facilmente governare. Nel contempo però, a proposito dei Savoia parla di Premura che i Re di questa casa hanno fin qui messo per favorire il rifiorimento dell'isola, elogiando i loro ordinamenti.
Dagli inizi dell'Ottocento si ebbe un fenomeno nuovo: la riscoperta dell'Isola. È un'apertura nuova perché si trattava di persone che, per motivi vari, erano intenzionati a visitarla, percorrere il suo interno, studiarla. Erano viaggiatori di tipo nuovo, spesso spinti dal desiderio di conoscere le diverse realtà di un'Isola distante per secoli anche culturalmente dal resto dell'Europa. Si era in età romantica, che succedeva ai Lumi e creava una sensibilità nuova, l'interesse per l' "altro", per la scoperta di ciò che è diverso. Scriveva Madame de Staël :"Le nazioni devono reciprocamente servirsi da guida [.....]. C'è qualcosa di singolarissimo nella differenza fra un popolo e l'altro: il clima, l'aspetto della natura, la lingua, il governo, l'insieme degli avvenimenti storici [....] contribuiscono a questa diversità, e nessun uomo, per quanto superiore egli sia, può indovinare ciò che si sviluppa naturalmente nella mente di chi vive su di un altro suolo e respira un'altra aria. Si avrà dunque un beneficio in ogni paese se si accolgono le idee altrui; giacché, in questo genere di cose, l'ospitalità fa la fortuna di colui che riceve".
L'Ottocento scopriva la storia, il senso del divenire storico, la nazione come individualità storica. La storia, accanto alla geografia, era considerata un ulteriore elemento di diversità, di specificità nazionale. Con l'Ottocento il concetto di divenire storico nasce ed entra a far parte della cultura occidentale. E l'Ottocento è anche il secolo della "scoperta" della Sardegna, dopo che per secoli era rimasta fuori dagli itinerari dei viaggiatori.
I viaggiatori, italiani e non, "investigavano" la realtà sarda secondo le loro lenti di lettura, creando particolari immagini-identità della Sardegna. Erano colpiti dal fascino dell'arcaicità e della primordialità dell'Isola. Vuillier la definirà Ile oubliée, e l'inglese Tyndale l'Isola mai vinta.
Questi mondi primitivi che essi descrivevano non erano stati ancora violati dalla civiltà europea, ma mantenevano una sorta di "civiltà naturale". L'isola aveva le caratteristiche di un mondo "fuori dal tempo". Immagini di questo tipo ispiravano una sorta di distanza storica, avvertita da molti viaggiatori che nel XIX secolo si trovarono a soggiornare in Sardegna. L'arcaicità della realtà sarda per loro rappresentò una sorta di diversità e l'impatto fu piuttosto forte.
D'altra parte, era inevitabile che il tempo quasi immobile della Sardegna, risultato dell'isolamento geografico e dell'arretratezza economica e sociale venisse confrontato con la realtà evoluta e dinamica dell'Europa, rispetto alla quale l'Isola era indietro di secoli. Tuttavia, questo carattere di chiusura e impenetrabilità non derivavano da un' "assenza di storia".
Ma non si può parlare di due tempi storici: il tempo rapido dell'Europa e quello statico della Sardegna. I ritardi e gli isolamenti erano il risultato - per intanto - della particolare posizione dell'Isola nella storia del Mediterraneo. Da una parte abbiamo una condizione storica che porta la Sardegna ad avere contatti, ad entrare in una rete di rapporti esteri. D'altro lato, i modi di vita dell'interno, la discontinuità dei rapporti con il mondo esterno, il fatto che la Sardegna non abbia partecipato alle rivoluzioni nei vari campi (culturali, politici, tecnici), hanno fatto sì che l'Isola seguisse un ritmo proprio di aperture e resistenze, chiusure, assimilazioni e persistenze. Da questo punto di vista, in Sardegna si trova una caratteristica falda di storia lenta di cui parla Fernand Braudel. La Sardegna ha conosciuto infatti per secoli un isolamento quasi ininterrotto e nonostante le invasioni e le dominazioni straniere, è rimasta sostanzialmente immune da influenze esterne. Ciò si è manifestato anche riguardo alla flora e alla fauna che mantenevano caratteristiche peculiari ed erano diverse da quelle delle regioni circostanti. A proposito del carattere peculiare dell'ambiente naturale sardo, Francesco Cetti, un naturalista settecentesco, autore fra l'altro di una Storia naturale di Sardegna, che su richiesta del governo sabaudo si stabilì in Sardegna per insegnare Matematica all'Università di Sassari, scriverà: Non v'è in Italia ciò che v'è in Sardegna, né in Sardegna v'è quel d'Italia.
La flora e la fauna sarde erano piuttosto varie e comprendevano specie da altre parti estinte. Basta citare come esempio il muflone che per certi aspetti diventò quasi il simbolo della Sardegna e che, nel corso del secolo, fu quasi sterminato come il bisonte americano. Un altro esempio è quello delle foche monache descritte da Lamarmora.
Anche sul piano del linguaggio si poteva riscontrare un'atipicità, infatti la lingua sarda è quella che è rimasta più simile al latino arcaico sia nelle parole che nella sintassi, come sosterrà autorevolmente soprattutto il tedesco Max Leopold Wagner.
Le stesse tradizioni isolane avevano un "carattere conservativo": un antropologo tedesco, Karlinger, ha scritto, forse esagerando, che la Sardegna era un'eccezione tra le isole mediterranee, perché ferma e chiusa in se stessa; era un tesoro inalterato di folklore, un museo naturale di etnografia.
In qualche modo a conferma di ciò scrive uno storico sardo, Carlino Sole, in Sardegna e Mediterraneo: "La Sardegna, per particolari disparità di sviluppo imposte dalla condizione geografica e dalla stratificazione di dominazioni differenti, era riuscita a mantenere un involucro più conservativo di quello delle altre regioni del Mediterraneo: più tenacemente che altrove, per esempio, prolungava nell'età moderna e contemporanea forme di vita e di tradizioni tipiche del mondo medievale così come nell'antichità aveva conservato caratteri protostorici. Da alcune manifestazioni di «cultura materiale», come l'aratro a chiodo o il carro a ruota piena, dall'artigianato, dalla presenza nella musica popolare di forme arcaiche e rituali (come le launeddas), dalle maschere e dai canti è possibile ancora rintracciare, nonostante le inevitabili sovrapposizioni successive, i resti e gli spezzoni di civiltà scomparse. Come nelle feste barbaricine si celebra ancora il rito pagano d una civiltà di pastori ormai estinti".
La realtà geografica avrebbe dunque condizionato le vicende storiche della Sardegna e della sua società. I Sardi, non sarebbero mai riusciti ad evadere dalla marginalità dell'Isola e ad espandersi verso altre terre perché dovunque il mare, invece di attirare gli isolani, sembra averli respinti verso l'interno dell'Isola. Il mare avrebbe circondato la Sardegna, isolandola. Questa sorta di cintura marina avrebbe ostacolato e ritardato i fermenti e gli stimoli provenienti dall'esterno. Come direbbe Giovanni Lilliu, la Sardegna diventava il frammento di un vecchio esteso continente alla deriva.
Solo di recente sono stati studiati gli effetti diretti e indiretti dell'insularità. In passato si concentrava l'attenzione sulla centralità della posizione mediterranea della Sardegna. Tuttavia è nel XVIII secolo che l'Isola entra a far parte degli interessi delle grandi potenze marittime dell'Europa di allora, la Francia e l'Inghilterra. Questo interesse rivelava come la Sardegna fosse importante sul piano strategico per ciascuna potenza marittima che era propensa a conquistarla o ad entrarne in possesso. La Sardegna non rappresentava più solo un luogo di rifugio dei naviganti e mercanti scampati alle tempeste o il luogo di prigionia di detenuti stranieri, ma comincia ad essere meta per osservatori militari, studiosi, diplomatici, cartografi francesi, svedesi, inglesi e tedeschi. A fine Settecento cominciava a maturare una nuova "coscienza nazionale", ma anche nuove consapevolezze: l'insularità non derivava tanto (o soltanto) dalla posizione geografica, ma dall'essere rimasta esclusa dai traffici, dall'arretratezza delle strutture economiche e dal carattere coloniale della dominazione spagnola prima e piemontese poi.
Sui Savoia e sul dominio coloniale piemontese, Diderot e D'Alembert, così scrivono nell'Encyclopedie: "...il popolo impoverito si è scoraggiato, ogni iniziativa industriale è cessata; i sovrani non ricavano quasi nulla da quest'isola, l'hanno trascurata e gli abitanti sono caduti in un'ignoranza profonda di tutte le arti e di tutti i mestieri. Lo stesso re di Sardegna che, attualmente, possiede quest'isola non ha creduto opportuno rimediare al suo cattivo stato e riformare la costituzione. Anche la corte di Torino considera la Sardegna come nient'altro che un titolo che ha posto il suo principe tra le teste coronate".
Se si guarda anche all'interno, al rilievo, la Sardegna si potrebbe definire, come ha fatto il grande storico francese Lucien Febvre, come un'Isola massiccia, un'"isola continentale", una sorta di "continente minore", ossia un'entità storica a parte. Da ciò non si deve però concludere che il mondo sardo fosse un mondo assolutamente chiuso. Febvre contrappone la Sardegna, esempio di "isola prigione" conservatrice di "antiche razze eliminate di vecchi usi, di vecchie forme sociali bandite dal continente", alla Sicilia, "île carrefur", una sorta di "quadrivio" naturale del Mediterraneo "volta a volta fenicia, .....poi greca, poi cartaginese, poi romana, poi vandala e gotica e bizantina, araba, poi normanna e poi angioina, aragonese, imperiale, sabauda, austriaca [....] l'enumerazione completa sarebbe interminabile".
La Sicilia insomma avrebbe infatti sempre assimilato qualcosa delle ondate successive di civiltà differenti che si sono succedute nel corso della storia.
La Sardegna, invece, sarebbe rimasta spesso immune dalle influenze esterne, apparendo, anche nei tempi antichi, "un mondo ancestrale e fossile [.....] l'immagine didattica della preistoria nella storia".
In realtà occorre dire che la storia della Sardegna non è fatta solo da chiusure ed arcaismi: le coste certo hanno svolto un ruolo importante di filtro con la realtà esterna, ma non tutto è rimasto invariato nel tempo: ogni età o dominazione ha portato qualcosa e ne ha trasformato qualche altra. 
La Sardegna non possedeva all'interno un sistema di vie di comunicazione. Essa non ha mai conosciuto una civiltà cittadina. Infatti Cagliari e Sassari, divise da antichi odi e inimicizie, erano dei semplici grossi borghi se paragonati con le "metropoli" mediterranee come Napoli, Palermo, Venezia, Marsiglia, ecc.... L'unica finestra sul mondo è stata, per certi aspetti, Cagliari. Al suo interno, la Sardegna presentava un paesaggio "particellato" che ha creato nuclei culturali chiusi, isole nell'isola.
Come ha scritto Fernand Braudel, "la montagna è responsabile quanto se non più del mare, dell'isolamento delle popolazioni sarde. L'isolamento esterno va di pari passo con l' isolamento interno".
Dentro questo paesaggio e orizzonte storico occorre situare i giudizi e le valutazioni dei "viaggiatori" e "visitatori" della Sardegna dal '700 in poi di cui tratteremo in questo volume.
Ad iniziare dall'Anonimo Piemontese, secondo cui l'economia sarda è dominata da attivissimi e scaltrissimi genovesi, livornesi e napoletani. Tale situazione è dovuta alla poltronite naturale alla nazione sarda...e al difetto d'industria.
Invece secondo il gesuita Padre Gemelli che soggiornerà in Sardegna dal 1768 al 1771, l'arretratezza della Sardegna e segnatamente della sua agricoltura è da ricondurre alle terre comunitarie:Nasce tutto il disordine dalla comunanza o quasi comunanza delle terre. E dunque la terapia è molto semplice : Distruggasi quindi questa comunanza o quasi comunanza delle terre in Sardegna, concedendole in perfetta e libera proprietà alle persone particolari; e otterrassi di certo il disiato rifiorimento dell'agricoltura ne' seminati, ne' pascoli, nelle piante, e in ogni parte della rustica economia.
Anche il tedesco Fuos, ritorna ossessivamente sul "vizio" già denunciato dall'Anonimo Piemontese ovvero che ai Sardi sarebbero connaturati : L'oziosità e la pigrizia...e il difetto d'industria.
Mentre l'inglese Henry Smyth, da buon protestante, addebita alla Chiesa di Roma le superstizioni in cui, abbondantemente, i Sardi sarebbero ancora immersi.
Padre Bresciani, che visitò per ben quattro volte l'Isola fra il 1843 e il 1846, riscontra nei costumi de' Sardi certe medesimezze con quelle dei primi popoli d'Asia, che non potrei dire quanto me ne sentissi riscosso e stupito. 
Secondo Lamarmora la Sardegna ha le caratteristiche di un'Isola-continente dove entro limiti ristretti si aveva una varietà di aspetti così grande degni di richiamare l'attenzione dell'osservatore [...]:varietà di montagne, di terreni, di miniere, di fossili.
Francesco d'Austria-Este esprime giudizi molto severi sui vicerè: Riguardavano comunemente la Sardegna come un esilio - scrive - in cui stavano tre anni per arricchirsi, o farsi meriti presso la loro corte.
Altrettanto severo Francesco d'Este è nei confronti del clero, specie nei confronti dei preti più ricchi che abitavano in genere nelle città, essi infatti - secondo il duca - menano una vita pigra, comoda per la più parte, e molti anche scandalosa pubblicamente con donne.
Valery è entusiasta per l'ospitalità dei Sardi che è allo stesso tempo una tradizione, un gusto e quasi un bisogno per il sardo; di contro un altro francese, Honoré de Balzac, risentito per non essere riuscito nella sua impresa in Sardegna di arricchirsi attraverso lo sfruttamento delle scorie delle miniere d'argento abbandonate nella Nurra, vaneggia di uomini e donne nude come selvaggi, domiciliati in tane e abbruttiti dalle foreste, che addirittura mangiano un pane fatto di farina mista ad argilla. L'Africa comincia qui - scrive - ho intravisto una popolazione in cenci, tutta nuda, abbronzata come gli etiopi..
Secondo il milanese Carlo Cattaneo i Sardi, quasi incatenati da forza arcana di tradizioni non seppero dalla rude vita pastorale e dell'aratore levar la mente alle imprese marittime, alle arti, alli studi. 
L'inglese Tyndale analizza la realtà sarda, ai suoi occhi selvaggia e misteriosa, studiandone l'intricato ordito storico, economico, politico, sociale e culturale contestualmente a dati scientifici e curiosità. Seppur affascinato da questa terra esotica e primitiva, non trascura di sottoporne al lettore le problematiche più scottanti, tracciando un quadro a tutto tondo de L'isola di Sardegna; di contro il francese Jourdan, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, sfoga il suo malumore lanciandosi in contumelie,insulti e diffamazioni contro i Sardi e la Sardegna rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi: una Sardegna insomma come un focolare spento, carica di barbarie.
L'intento è solo quello di denigrare l'Isola, presentata solo come terra di banditi, misera e arretrata. Jourdan riesce perfino a falsificare la realtà dei Nuraghi scrivendo che si tratta di rovine, peraltro insignificanti perché resti incontrati vicino al mare in tre o quattro punti (sic!). Questi Noraghi - scrive il francese - misteriosi e giganteschi, se so¬no una prova delle dominazioni subite, non sono però né così numerosi né così importanti da attestare una civiltà decadente.
Al contrario, per un altro francese, Domenech, la Sardegna, sempre trascurata dal suo governo, ignorata e poco conosciuta dai turisti,ha per questo conservato fino a oggi le sue caratteristiche originali, eccezionali, e la sua fisionomia orientale e primitiva; tanto che è colpito dall'analogia delle usanze sarde con ciò che aveva letto nella Bibbia e in Omero e dove ritrova popolazioni ardenti, simpatiche,, buone, anime fortemente temperate, virtù patriarcali, difetti moderni, bizzarrie rispettabili, grandezza e poesia.
Dell'inglese Tennant sono estremamente interessanti e in qualche modo ancora attuali alcune proposte che attraversano tutta la sua opera, La Sardegna e le sue risorse: ad iniziare dalla necessità di una serie di intraprese tese a valorizzare la produzione locale per favorire le esportazioni e ridurre le importazioni. Individua a questo proposito i settori portanti dell'economia sarda sui quali intervenire: l'agricoltura, le miniere, le piccole industrie, la lavorazione in loco delle materie prime, una politica fiscale meno vessatoria, il turismo, grazie anche all'ambiente incontaminato e all'amenità dei luoghi, unito ai monumenti antichi unici al mondo.
Il francese Delessert, da letterato e fotografo, nel suo viaggio in Sardegna, è attratto dagli aranceti di Milis, dalle feste in costume e soprattutto dai balli all'aperto, dall'illuminazione della Grotta di Nettuno ad Alghero, dalle serenate e da su fastiggiu (il colloqui d'amore dalla finestra).
L'italiano Mantegazza, sociologo, economista e medico, denuncia invece l'abbandono e l'isolamento in cui è lasciata dai poteri centrali; l'uso di mandare nell'Isola, come una Siberia d'Italia funzionari rozzi, inetti, ignoranti o addirittura colpevoli; l'assalto dell'Isola da parte di avidi speculatori che, per esempio strappano le foreste, lembo a lembo, con feroce vandalismo; l'estrema povertà e insufficienza dell'ordinamento scolastico...gli ergastolani che gli fanno pensare che la società si vendica più di quel che si difenda.
Un altro francese, Boullier, innamorato della Sardegna, in due opere sui canti popolari e sui costumi dei Sardi, raccoglie, commenta ma soprattutto fa conoscere in Francia molta poesia popolare sarda, mentre l'italiano Aventi, conduce in Sardegna un'inchiesta agraria che, nata inizialmente come studio del progetto di colonizzazione della valle del Coghinas, si estende alle altre parti del territorio, considerato dal punto di vista dell'agronomo come vergine, incontaminato, dove cioè il margine di progresso della tecnica è vastissimo, dove tutto è da fare, tutto da innovare, per metterla parallela alle cognizioni e al progresso di parecchie Provincie del Continente.
Il Vuillier, pittore, disegnatore e scrittore francese della fine del XIX secolo, per quanto attiene alla nostra Isola descrive molto spesso donne e uomini con i costumi tradizionali dei vari paesi ma anche rappresentazioni di danze (del duru-duru), panorami, paesaggi e località, edifici, monumenti, chiese, scene agresti e persino oggettistica. 
Un altro italiano invece, Corbetta, nel suo libro dedicato alla Sardegna, tratta soprattutto della geografia, la storia, gli usi, le istituzioni, le antichità e l'economia corredata da molte statistiche.

 

 

Montanaru e la lingua sarda

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MONTANARU E LA LINGUA SARDA

Montanaru FotoMONTANARU E LA LINGUA SARDA
di Francesco Casula
A Desulo domenica 1° novembre (Scuola media, ore 10) verranno proclamati i vincitori del Premio Montanaru 2015. A deciderlo la Giuria composta da Gonario Carta-Brocca, (poeta) Francesco Casula, (storico della Letteratura sarda), Giancarlo Casula (nipote di Montanaru), Franca Marcialis (studiosa di lingua sarda), Antony Muroni (Direttore dell'Unione Sarda).
Ma ecco una mia nota su Montanaru e la lingua sard
a

Antioco Casula-Montanaru, al di là della sua funzione letteraria e poetica vede, nella lingua sarda, anche una funzione civile, educativa e didattica. Ecco cosa scrive nel suo Diario: "...il diffondere l'uso della lingua sarda in tutte le scuole di ogni ordine e grado non è per gli educatori sardi soltanto una necessità psicologica alla quale nessuno può sottrarsi, ma è il solo modo di essere Sardi, di essere cioè quello che veramente siamo per conservare e difendere la personalità del nostro popolo. E se tutti fossimo in questa disposizione di idee e di propositi ci faremmo rispettare più di quanto non ci rispettino" .
E ancora: "Spetta a noi maestri in primo luogo di richiamare gli scolari alla conoscenza del mondo che li circonda usando la lingua materna" .
Si tratta - come ognuno può vedere - di una posizione avveduta, sul piano didattico, culturale ed educativo e moderna. Oggi infatti linguisti e glottologi come tutti gli studiosi delle scienze sociali: psicologi e pedagogisti, antropologi e psicanalisti e persino psichiatri sono unanimemente concordi nel sostenere l'importanza della lingua materna: per intanto per lo sviluppo equilibrato dei bambini. Secondo gli studiosi infatti il Bilinguismo, praticato fin da bambini, sviluppa l'intelligenza e costituisce un vantaggio intellettuale non sostituibile con l'insegnamento in età scolare di una seconda lingua, ad esempio l'inglese. Nell'apprendimento bilingue entrano in gioco fattori di carattere psico- linguistico di grande portata formativa, messi in evidenza da appropriati e rigorosi studi e ricerche. Tutto ciò, soprattutto con il Bilinguismo a base etnica.
Lingua materna che significa identità, e l'Identità come lingua si fa parola e la parola si fa scrittura che chiama i sardi all'unione, non solo con il sentimento ma con l'autocoscienza:quello di appartenere alla stessa terra-madre. "Per difendere - dice Montanaru - la personalità del nostro popolo"
Un'identità mai del tutto compiuta e conclusa, ma da completare in continuum, attingendo alle peculiari risorse spirituali, morali e materiali della tradizione, purgandole delle scorie inutili o addirittura maligne: e ciò non può però significare un incantamento romantico del passato, una sterile contemplazione per ridursi e rispecchiarsi in se stessi o per chiudersi nelle riserve
Una lingua che non resta dunque immobile - come del resto l'identità di un popolo - come fosse un fossile o un bronzetto nuragico, ma si "costruisce" e si "ricostruisce" dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce all'agglutinarsi della vita culturale e sociale: come già sosteneva Gramsci.
In tal modo la lingua, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.
E comunque in quanto strumento di comunicazione è capace di esprimere tutto l'universo culturale, compreso il messaggio politico, scientifico, e non solo dunque - come purtroppo ancora oggi molti pensano e sostengono - contos de foghile!
Ma la posizione di Montanaru in merito alla lingua sarda emerge ancor più nella polemica che ebbe con tale Anchisi. Nel 1933 il poeta desulese pubblicò Sos cantos de sa solitudine che riscosse un buon successo. Nacque ben presto una pesante polemica con Gino Anchisi, giornalista collaboratore dell'Unione Sarda, il quale dopo aver sostenuto che, bravo com'era, Casula doveva scrivere in italiano anziché in sardo, al mancato assenso del poeta richiese il rispetto della legge che imponeva l'uso esclusivo della lingua italiana; Anchisi ottenne perciò la censura di Casula dai giornali isolani, lasciando peraltro apparire che il poeta non avesse risposto. Aveva invece risposto, sostenendo che il risveglio culturale della Sardegna poteva nascere solo dal recupero della madre lingua.
Nella replica Montanaru farà infatti, in merito al Sardo, una serie di osservazioni estremamente interessanti e in qualche modo profetiche: ricorderà infatti che "la lingua dei padri" sarebbe diventata la "lingua nazionale dei Sardi" perché "non si spegnerà mai nella nostra coscienza il convincimento che ci vuole appartenere a una etnia auctotona". L'interesse di queste affermazioni è duplice: da una parte auspica, prevede e desidera una sorta di "lingua sarda nazionale unitaria", dall'altra ancòra la stessa all'etnia auctotona sarda. Si tratta di posizioni, culturali, linguistiche e politiche estremamente attuali che saranno sviluppate negli anni '70 dall'algherese Antonio Simon Mossa, il teorico dell'indipendentismo-federalismo moderno.

 

 

Salvatore Satta

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Ricordando, a 40 anni dalla sua morte, Salvatore Satta

1 novembre 2015

La veranda - Salvatore SattaFrancesco Casula

Ricorre quest'anno il quarantesimo anniversario della morte di Salvatore Satta, accademico, giurista e narratore di vaglia, segnatamente per il suo capolavoro: Il giorno del giudizio. Esso pubblicato postumo, nell'anno stesso della sua morte, nel 1975, susciterà sconcerto e malcontento, soprattutto a Nuoro: in realtà si rivelerà una delle opere di più alto livello letterario che si siano mai state registrate in Sardegna.

In pochi mesi venderà 60.000 copie e conoscerà subito decine di edizioni, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama. Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un'opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell'esistenza. Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina.

Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell'unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l'inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell'atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene.

Il romanzo nasce - è lui stesso a scriverlo in alcune lettere - come "storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna, un'isola di demoniaca tristezza". Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l'autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall'arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all'altra, fa da filo conduttore dell'intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente).

Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell'esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno l'allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte.

La morte effimera e insieme eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall'incipit: con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, "Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte" e "La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose" Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano.

Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Sattauomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C'è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente, la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l'autore cita in questo passo, come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che fosse esistente.

Nell'aforisma "la morte è eterna ed effimera..." sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: "Donna Vincenza era una donna senza speranza".

L'autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l'esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi.

Nel Giorno non c'è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L'io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l'interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un'operazione metalinguistica all'interno del testo, troviamo esemplificato quest'atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della moglie.

La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l'asciutezza dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l'assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.

Nell'immagine: La veranda - Salvatore Satta

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