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Arquer

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Università della Terza Età di Quartu 5° Lezione di Francesco Casula

 SIGISMONDO ARQUER

Lo scrittore vittima dell'Inquisizione  e condannato al rogo in Spagna (1530-1571)

Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530, studia teologia e legge nell'università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell'università di Siena si laurea in Teologia. Tornato in Sardegna diviene avvocato del fisco a Cagliari. Nel settembre del 1548 lascia di nuovo l'Isola per recarsi presso il re Carlo I (Carlo V imperatore) a Bruxelles, a perorare la causa della sua famiglia alla quale erano stati posti sotto sequestro i beni.

   Durante un breve soggiorno a Basilea, su invito di Sebastian Münster, geografo, cartografo e di fede luterana presso il quale era ospite, scrive una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell'isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia scritta dallo stesso Münster. La parte composta dall'Arquer  fu pubblicata nell'edizione del 1550, ma la stesura più nota in Italia è quella del 1558, riportata nelle Antiquitates Italicae Medii Evi di Ludovico Muratori. Il libro dell'Arquer sulla Sardegna fu inserito anche da Domenico Simon, insigne giurista e letterato algherese del secolo XVIII, nel suo Rerum Sardoarum Scxiptores, stampato a Torino nel 1778.

  Sulla figura dell'Arquer scrissero, tra gli altri, anche gli storici sardi Pasquale Tola, Pietro Martini e Giuseppe Manno. La Breve storia della Sardegna, rappresenta  la più antica descrizione dello stato e dei problemi dell'Isola in cui l'Arquer traccia anche un ritratto censorio del corrotto clero del tempo. La descrizione che egli presenta della condizione dei religiosi cagliaritani dell'epoca non è diversa da quella che espose nel 1562 l'Arci­vescovo Antonio Parragues de Castillejo, ma per tale censura l'Arquer incorse nelle ire dell'Inquisizione spagnola, è accusato di luteranesimo e incarcerato a Toledo nello stesso anno 1562. Riesce ad evadere, ma non può uscire dalla Spagna perché vengono inviate a tutte le frontiere le indicazioni sulla sua persona, per cui è imprigionato una seconda vol­ta.

L'Arquer sostiene appassionatamente la sua innocenza ed in carcere scrive un'autodifesa  in  lingua castigliana, la Passione. Il poema -che segna l'inizio della drammaturgia religiosa in Sardegna- si compone di 45 strofe, ognuna delle quali comprende dieci versi ottosillabi con rima assonante mista, ossia baciata e alternata. Il manoscritto del poema sulla Passione fu rinvenuto nel 1953 fra le carte del processo a carico di Arquer presso "l'Archvio Historico Nacional" di Madrid da Francesco Loddo e Alberto Boscolo, studiosi di storia sarda, durante un loro viaggio nella capitale spagnola, che lo pubblicarono nel volume XXIV dell'Archivio storico sardo. Nel poema l'Arquer esalta la passione di Gesù Cristo così simile alla sua, ma i suoi nemici cagliaritani, tra i quali vi erano gli Aymerich e gli Zapata, intrigheranno contro di lui raccogliendo prove tali da accelerarne la fine. Egli sosterrà sempre la propria innocenza ed anzi si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile "auto da fé" (l'espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà nel il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione. La sua figura "assai complessa e conflittiva e di dimensione europea" -la definisce Marcello Maria Cocco, studioso dell'Arquer- e la sua opera, ignorata dagli scrittori sardi contemporanei e pressoché sconosciuta fino alla metà del '700, quando ne parlerà Ludovico Muratori-  verrà riscoperta e riproposta nell'800 con un triplice atteggiamento nei suoi confronti: di compassione per la sua tragica fine; di indispettita disapprovazione per le sue critiche impietose formulate nella Sardiniae brevis istoria; di ammirazione per la incisività e la concisione della sua prosa ma soprattutto per il sacrificio della sua vita che segna il trionfo della libertà di coscienza.

Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull'Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del '500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer.

 

Presentazione del testo [tratto dal cap. VII dell'opera  Sardiniae brevis historia et descriptio, testi, traduzione e note a cura di Cenza Thermes, Ed. Gianni Trois, Cagliari 1987, pag.30].

L'opera scritta da Sigismondo durante il soggiorno basileense dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara  raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante. Si tratta di un'opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell'Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari.

Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue.

Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d'Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro, riportato nel testo, che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell'uso del vestiario più o meno di lusso.

Il "librillo" -così lo chiama l'autore- è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l'Arquer, conscio dell'incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, "Si dominus requiem e ocium dederit" (Se il Signore ci darà pace e tempo libero). Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso La qualità intrinseca dell'opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell'archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.

 

DE MAGISTRATIBUS, INCOLARUM NATURA, MORIBUS, LEGIBUS ET RELIGIONE

 "[...] Ecclesiastici magistratus in Sardinia sunt constituti iuxta papae decreta. Nam sunt in ea tres archiepiscopi, nempe Calaritanus, Arborensis et Turritanensis seu Sassarensis, qui et nonnullos sub se habent episcopos. Est quoque ibi inquisitor generalis contra haereticos, apostatas et maleficos, secundum Hispaniae mores et constitutiones, ultra ea quae iure communi Imperato­rum et pontificum inquisitoribus sunt concessa. Habet iste immensa privilegia, nec quenquam praeter Hispa­niae supremum inquisitorem, cuius est delegatus, agno­scit superiorem in Sardinia. Constituit ipse quoque sub se alios inquisitores et ministros, quorum omnium iudex ipse est, qui tanta severitate contra suspectos procedunt, ut paucis verbis exprimi nequeat. Nam miseros homines multis annis in carcere detinent, examinant et torquent priusquam eos vel damnent vel absolvant. Habent autem de his rebus libros impressos, ut Malleum malefica­rum, Directorium inquisitorum et nonnullos alios, item instructiones secretas et multa alia quae ex ipsorum pendent arbitrio. Habent praeterea Sardi et Cruciatae commissarium, qui nullum praeter Romanum pontificem agnoscit superio­rem, etc.

Caeterum quantum attinet ad mores et naturam Sardo­rum, noveris eos esse corpore robustos, agrestes et laboribus assuetos, praeter paucos luxui deditos: literarum studio parum sunt intenti, venationi autem deditissimi sunt. Multi pecuariam faciunt rem, agresti cibo et .aqua contenti. Qui in oppidi et villis habitant, pacifice inter se

vivunt, advenas amant, et humaniter tractant. Vivunt in diem, vilissimoque vestiuntur panno. Bella nulla ha­bent, neque multa arma. Et quod mirandum est, nullum habent artificem in tam ampia insula, qui enses, pugio­nes et alia fabricet arma, sed haec petunt ex Hispania et Italia. Utuntur plerunque balistis, maxime in vena­tionibus. Et si quando piratae, Turcae aut Afri illuc veniunt praedam abacturi, facile a Sardis in fugam vertuntur aut captivi detinentur. Sunt Sardi optimi equites, sunt ob solis ardorem subfusci coloris, vivunt bene secundum legem naturae, optime victuri, si sin­ceros haberent verbi Dei praecones.

Cum rustici diem fe­stum alicuius sancti celebrant, audita missa in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, prophana cantant, choreas viri cum foeminis ducunt, porcos, arietes et armenta mactant, magnaque laetitia in honorem sancti vescuntur carnibus illis. Sunt etiam multi qui pecus aliquod saginant in hono­rem certi alicuius sancti, ut illud in fano eius potissimum in sylvis extructo, et festa die devorent. Et si familia minor fuerit ad esum pecoris, convocant et alios ad con­vivium illud quod in fano celebrant, ne quid residui maneat. Foeminae rusticorum valde honestae sunt in vestitu, omnem escludentes pompam at urbanae di­vitiis abundantes, abutuntur illis in magnam super­biam.

Sacerdotes indoctissimi sunt, ut raros inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris".

 

MAGISTRATURE, NATURA DEGLI ABITANTI, LORO COSTUME, LEGGI E RELIGION

 [...] Le cariche ecclesiastiche in Sardegna sono regolate secondo i decreti del Papa. Infatti vi si trovano tre arci­vescovi, a Cagliari, Arborea e Torres o Sassari, i quali hanno sotto di sé alcuni vescovi. Vi è pure un inqui­sitore generale contro gli eretici, gli apostati e gli stregoni, come av­viene in Spagna, al quale sono con­cessi altri diritti, oltre quelli che, per norma generale voluta dai re e dai papi, sono concessi agli altri inqui­sitori. Gode di grandissimi privilegi e non ha sopra di sé nessuno all'in­fuori del supremo inquisitore di Spa­gna, del quale è delegato. Nessuno in Sardegna può contare più di lui. Egli, per suo conto, nomina, come suoi dipendenti, altri inquisitori e funzionari, dei quali è giudice; co­storo agiscono contro chi è sospet­tato, con tanta durezza che non è possibile accennarne solo con poche parole. Infatti, tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici, e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli. Hanno an­che, per esercitare le loro funzioni, dei libri, come ilMalleum malefica­rum, il Directorium inquisitorum e alcuni altri volumi. Inoltre hanno del­le istruzioni segrete e molte altre disposizioni che interpretano secondo il loro personale giudizio. I Sardi hanno anche unCommissarium Crociataeche non ha alcun superiore, oltre il pontefice, ecc. Infine, per quanto riguarda i costumi e la natura dei Sardi, dirò che essi son robusti, per lo più rudi e avvez­zi alla fatica, all'infuori di pochi che si abbandonano al lusso; son poco dediti allo studio delle lettere, men­tre amano moltissimo la caccia. Mol­ti sono pastori e a loro bastano cibo agreste e acqua. Quelli che abitano nei borghi e nei villaggi, vivono tran­quilli e sono ospitali e gentili; vivo­no alla giornata e vanno vestiti di poverissimo panno; non conoscono guerra ed hanno anche poche armi; ciò che è ancora più straordinario è il fatto che, in un'isola così vasta, non vi è chi fabbrichi spade, pugnali e altre armi; ma queste vengono dalla Spagna e dall'Italia. I Sardi si servono invece di frecce, soprattutto quando vanno a caccia. Ma se tal­volta sbarcano nell'isola, per far pre­da, pirati turchi o africani, vengono subito volti in fuga dai Sardi o son fatti prigionieri. Gli isolani son ottimi cavalieri e di colorito bruno a causa del sole ar­dente; vivono onestamente, secondo le leggi di natura, e meglio vivreb­bero se avessero degli onesti pre­dicatori della parola di Dio.

Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano -uomini e donne- dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa. Le donne cam­pagnole sono modestissime nel ve­stire che non ostenta lussi; ma le signore delle città, che son ricchis­sime, abusano del fasto e del lusso, ostentandoli superbamente. I sacer­doti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne tra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e si danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura.

 -De Sardorum lingua [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 29]

"Habuerunt quidem Sardi olim linguam propriam; sed quum diversi populi immigraverint in Insulam atque ab exteris principibus eius imperium usurpatum fuerit, nempe Latinis, Pisanis, Genuensibus, Hispanis et Afris, corrupta fuit multum lingua eorum, relictis, tamen plurimis vocabulis; quae in nullo inveniuntur idiomate. Latini sermonis aduc multa tenet vocabula, praesertim in Barbariae montibus, ubi Romani Imperatores militum habebant praesidia, ut L.ij.C. de officio praefecti prae. Afric.

 Hinc est quod Sardi in diversis locis tam diverse loquuntur,  iuxta quod tam varium

habuerunt imperium; etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant. Sunt autem duae praecipuae in ea Insula linguae, una. qua utuntur in civitatibus, et altera qua extra civitates.

Oppidani loquuntur fere lingua Hispanica, Tarraconensi seu Catalana, quam. didicerunt ab Hispanis, qui plerumque magistratum in eisdem gerunt civitatibus: alii vero genuinam retinent Sardorum linguam,

 

La lingua dei Sardi

Un tempo i Sardi ebbero una lingua propria, ma poiché nell'isola soprag­giunsero diversi popoli e la terra sarda fu dominio di signorie stra­niere, come quelle dei Latini, dei Pisani, dei Genovesi, degli Ispanici e degli Africani, la lingua ne rimase corrotta, sebbene tuttora vi si tro­vino moltissimi vocaboli che non e­sistono in nessun'altra lingua. Ci re­stano molte parole latine, soprattut­to nei monti della Barbagia, dove gli imperatori romani stanziarono i loro presidi, come è detto nel libro II C. De officio prae. Afric.

Da quanto ho detto precedentemen­te, ne è derivato il fatto che i Sardi, nei diversi luoghi, parlano lingue tan­to diverse, a seconda dei dominato­ri; ma fra di loro si intendono bene.

Nell'isola, due sono le lingue prin­cipali: una è quella usata nelle cit­tà, l'altra è quella usata fuori di esse. Infatti, nelle città si parla quasi do­vunque la lingua spagnola, tarrago­nense o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando; gli altri mantengono intatta la lingua sarda.

 

 


-Sa Scomuniga de predi Antiogu

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Università della terza Età di Quartu sesta Lezione 25-11-2015
Scheda di Francesco Casula 
Il capolavoro, anonimo, della poesia comico-satirica sarda dell'800
Sa Scomuniga de predi Antiogu in 678 versi, alcuni dei quali particolarmente icastici e fulminanti, rappresenta senza ombra di dubbio il capolavoro della poesia comica e satirica in sardo-campidanese dell'800 e - forse - non solo. E rimane comunque una delle opere migliori prodotte in lingua sarda. 
Mai pubblicata a stampa dal suo autore che rimane sconosciuto, la più antica edizione che si conosce è del 1879 con il titolo Famosissima maledizioni de s'arrettori de Masuddas, a dimostrazione che era molto conosciuta e dunque doveva essere già abbastanza antica.
Antonello Satta, il grande studioso de Sa scomuniga, colloca la data di composizione intorno al 1850: nel clima delle polemiche e delle scomuniche che precedono e seguono l'abolizione, per legge, delle decime il 15 aprile 1851 da parte di Vittorio Emanuele II.
Celebrata da Antonio Gramsci che le riconosce un umorismo fresco e paesano e in una Lettera alla madre le chiede di mandargliene una copia; studiata da Max Leopold Wagner, che la considera «un monumento psicologico» e «dalla vis comica irresistibile», anche se, -a mio parere sbagliando - non le riconosce il minimo valore letterario.
L'autore, che è un eccezionale conoscitore della cultura popolare, di ciò che vive e che si muove nelle sue viscere e nel suo sottosuolo, non è un poeta estemporaneo che si affida alla imitazione della poesia colta. È un intellettuale raffinato che riesce a portare la poesia popolare e satirica nell'ambito della dignità artistica, in genere non amplissimo in Sardegna, anche perché la nostra intellighenzia locale, salvo rare eccezioni, è solita affidarsi alle suggestioni -quando non alle rimasticature- delle culture egemoni ed esterne: arcadiche o romantiche o neorealiste o noir, poco importa. Culture che sono assolutamente divergenti o comunque lontane, -almeno per come vengono assimilate ed espresse- dalla identità dei sardi.

Presentazione del testo 
Predi Antiogu, emblema non soltanto del clero -e dunque di una classe di potere- ma anche dei poveri di villaggio, fatti tutti uguali dalla miseria, è costretto, se vuole sopravvivere, a entrare e inserirsi anche lui nella economia locale, e si fa allevatore di pecore e di capre. Ma anche lui è costretto a "pagare" una decima, pesante ed esosa: subisce, infatti, il furto del suo bestiame. Così s'arrettori de Masuddas porta sul pulpito la sua dolorosa esperienza privata, l'aver subito in «d'una notti de scuriu», [«in una notte oscura»], il furto. In tal modo, i «malignosus e discannotus», [«maligni e ingrati»], nei paesi come Masullas hanno voluto degumai po finzas a is sacerdotus, [«far fuori persino i sacerdoti»]. 
Antonello Satta colloca la composizione in quel genere letterario specificamente sardo che chiama «poesia agreste», che riconduce nel cuore stesso di un modo di pensare la propria esistenza che è tipica della civiltà di villaggio della Sardegna dell'Ottocento.
Ma ecco i versi del testo:

[...]
Custu sreba'1 po is mascus
It'ap'a2 nai immoi
a is eguas colludas?
Minci e chi si a' parau!
Gei nd'eis cundiu sa' idda3
cun centu milla maneras
de lussuria e disonestadi!

Tengu finzas bregungia
de ddu nai me in s'Artari:
sindi andais a Casteddu
it'an ca feis me innì?
Nan c'andais a srebì:
unu tiau! A bagassai!
E finzas po tres arriabis
osi feis iscrapuddai
de pustis chi su sodrau
su nennori cavalleri
os'ant appiccigau
su mabi4 furisteri.
E immoi a intru 'e5 'idda6
ita manera è custa
ita tiau de farringiu
totu su logu è pringiu
e accanta de iscioppai.
Candu mai custu s'è biu:
is bagadias angiadas!
Eguas de su dimoniu
anch'è su matrimoniu
E is cartas de isposai ?
Minci e chini s'ad isbiddiau
e pottau a segu' de carru! [...]

Note
1.Nella lingua sarda è molto presente il fenomeno della "metatesi" (dal greco metàthesis che significa trasposizione) presente nella lingua greca, ma anche di altre lingue, persino in italiano per es. areoplano invece di aeroplano. Così possiamo avere srebat o serbat, (serva), perda, preda o pedra (pietra) con la trasposizione del fonema, "r" in questo caso, all'interno della parola. Un fonema che potremmo chiamare "ballerino": in quanto si sposta..
2. Il segno <'> indica l'elisione di qualche lettera: in genere della consonante finale (della in sreba') o della vocale ( in it') o (in ap').
3. L'elisione può anche riguardare la consonante iniziale come in 'idda, (paese) in cui è eliminata la . Il motivo delle elisioni è da ricondurre o a cacofonie (cattivi suoni) o a motivazioni metriche.
4. Mabi (male) tipico della Marmilla, nella maggior parte del Campidanese si usa "mali".
5. 'e (di):viene elisa la d iniziale
6. 'idda: vedi nota n.3

Traduzione
[...]
Questo serva per i maschi
Che dirò adesso
alle cavalle vergini?
Maledetto chi vi ha messe al mondo.
Avete proprio sistemato il paese
in centomila modi
di lussuria e disonestà.
Ho persino vergogna
a dirlo dall'Altare:
ve ne andate a Cagliari
per fare che cosa laggiù?
Dicono che andate a far le serve:
un accidenti! A puttaneggiare!
E anche per pochi centesimi
vi mettete a scapocchiare
dopo che il militare
il signore cavaliere
vi hanno contagiato
il male forestiero.
E adesso nel paese
che maniera è questa
che diamine di meretricio,
tutto il posto è pregno
ed è vicino a esplodere.
Quando mai s'è visto questo:
le nubili che hanno figliato!
Cavalle del demonio,
dove sono il matrimonio
e gli atti per sposarsi?
Maledetto chi vi ha tolto il cordone ombelicale
e portato nella parte posteriore del carro! [...]

ANALIZZARE
Dentro lo schema del componimento che è semplicissimo (denuncia particolareggiata del furto e anatema) scorre la vita della comunità della Marmilla, una regione storica della Sardegna meridionale, vista nel suo sottosuolo antropologico. Un popolo dedito alle fatiche e alle miserie delle attività contadine diventa «archiladori, chi non lassat cosa in logu, una maniga de ladronis» [«uccello rapace che non lascia niente dove passa, un manipolo di ladri»]. Tutti, infatti, sono «furuncus che i su 'attu, imbidiosus de s'allenu, praizzosus che i su cani» [«ladri come i gatti, invidiosi dei beni altrui, poltroni come i cani»].
Particolarmente duri ed efficaci sono gli improperi contro le donne, cui sono dedicati i versi riportati: esse, per predi Antiogu (prete Antioco), non si limitano a bagassai, (puttaneggiare), soltanto quando vanno a Cagliari, come domestiche: ma si comportano allo stesso modo anche a intro 'e 'idda, (dentro il paese), tanto che «tottu su logu è pringiu e accanta de iscioppai» (tutto il posto è pregno e vicino a esplodere, partorire).
L'autore de Sa scomuniga nei suoi versi rifiuta e sfugge a preziosismi retorici e lessicali come a metafore di riporto o immagini meramente letterarie. La sua lingua scorre fluida e lieve nell'alveo della poesia/creazione comunitaria, senza forzature popolareggianti di matrice colta. La lingua di base è il campidanese dell'area di Mogoro-Masullas in cui si sovrappongono elementi lessicali, fonetici e sintattici appartenenti ad altre aree linguistiche dei campidani. Il metro si avvicina a quello della repentina, una composizione estemporanea e improvvisata, cantata soltanto da pochissimi improvvisatori, il verso è libero.

FLASH DI STORIA-CIVILTA'

-"Sa scomunica de Predi Antiogu", Gramsci e il folclore.
L'interesse di Gramsci per "Sa scomunica de Predi Antiogu" deriva dalla curiosità di conoscere la cultura popolare oltre che la Lingua sarda. Che il "martire" di Ales concepisce come qualcosa che si "costruisce" dinamicamente nel tempo, che si confronta e interagisce, entrando nel circuito dell'innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce con l'agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, per Gramsci, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.
Sì, le tradizioni popolari: "le canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana ... le gare poetiche... le feste di San Costantino di Sedilo e di San Palmerio ... le feste di Sant'Isidoro". "Sai - scrive in una lettera alla mamma il 3 Ottobre 1927- che queste cose mi hanno sempre interessato molto, perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu nè coa".
In varie Lettere dal carcere ma anche in altre opere Gramsci ribadirà che il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa molto seria. Solo così -fra l'altro- l'insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente una nuova cultura nelle grandi masse popolari, facendo sparire il distacco fra la cultura moderna e la cultura popolare o folclore. In altre occasioni sottolinea che folclore, è ciò che è, e "occorrerebbe studiarlo come una concezione del mondo e della vita...riflesso della condizione di vita culturale di un popolo...in contrasto con la società ufficiale".

-La Chiesa e la Lingua sarda
Dal Basso Medioevo fino ai primi del '900 la Chiesa produce molte opere in Lingua sarda e in tutto questo periodo moltissimi preti maneggiano la Lingua sarda meglio dello Spagnolo prima e dell'Italiano poi. Vengono così prodotti Gosos (Inni e laudi), sacre rappresentazioni, sermoni ad uso dei sacerdoti ma soprattutto manuali di catechismo: questa scelta nasce soprattutto dall'esigenza di diffondere il Cristianesimo a livello popolare. Pensiamo a questo proposito a quanto avviene con il dominio piemontese nell'Isola. Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale -della cultura, del Governo,dell'insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati - è il Castigliano,; la lingua del popolo in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell'Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la Lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli Atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l'imposizione della Lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall'Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il "Partito spagnolo", sempre forte nell'aristocrazia ma non solo. Pensano allora di elaborare "Il progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola" affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell'Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell'Istruzione del popolo. I bambini "poverelli" ricevono, gratuitamente, due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Cardinal Roberto Bellarmino e il Catechismo agrario, "giacchè l'agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna". Ma evidentemente l'operazione culturale non dà buoni frutti se non solo all'inizio dell'800 ma anche all'inizio del '900 la Chiesa sente il dovere di scrivere i Catechismi in Lingua sarda: ne ricordo in particolare due: uno del 1820 (de su obispu Giuanni Nepomuceno de Iglesias) e un altro (Catechismu Maggiori) del 1910, ambedue scritti in sardo-campidanese.

*Questi testi sono tratti dalla mia Letteratura e civiltà della Sardegna volume 1, Edizioni Grafica del Parteolla, 2011.



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7. EFISIO CADONI sulla Gazzetta del Medio Campidano, 15 Novembre 2014,
Le mie considerazioni sulla raccolta antològica della prosa e della poesía degli scrittori sardi, in lingua sarda e in lingua italiana, che è il piú recente lavoro intellettuale di Francesco Casula, verterà sull'individuazione di alcune línee guida che non solo caratterízzano l'òpera nella sua originalità, ma sono dei veri punti chiave che ne àprono le porte a una piú fàcile comprensione.
Colgo direttamente dalla copertina i concetti "essenziali" che ci offre l'autore come argomenti da sviluppare, temi da svòlgere, quelli che egli propone e che costituíscono il motivo ispiratore, esattamente dalle immàgini e dal títolo. Le immàgini ci condúcono immediatamente agli scrittori, ad autori che sono alcuni dei personaggi di cui scrive e che riconosciamo, Deledda, Gramsci, Lussu, Peppino Mereu ( nel primo volume); Lobina, Màsala, Atzeni, Michele Columbu (nel secondo volume) ... Le parole del títolo ci dànno chiara chiara la materia che Francesco Casula diligentemente spècula: Letteratura, Civiltà, Sardegna.
La Sardegna è il luogo geogràfico, ma è anche il locus amoenus ac necessarius, il luogo attraente e gradito agli scrittori, ma per loro fortemente indispensàbile, necessario alla loro esistenza speciale; e quindi rappresenta l'estensione, la dilatazione non solo spaziale, ma temporale e di profondo rapimento interiore in cui si gènerano e si fórmano gli scrittori di cui Casula scrive. È il luogo in cui, dunque, nasce e cresce, nel tempo, la letteratura di pari passo con la civiltà da cui essa s'orígina e di cui si nutre, con cui si rinvigorisce e, come si diceva una volta, si reficia, si ristora ricevèndovi l'umífero terreno ove autore e fruitore tròvano giovamento spirituale. E il luogo rappresenta perciò anche il límite che blocca l'interesse crítico e stòrico di Francesco Casula, il confine invalicàbile davanti a cui si ferma, dove c'è Setta e Sibilia, oltre il quale non ha motivo di spíngere la sua "canoscenza", perché il suo universo da esplorare ed esplorato, oggi, è qui, dentro la nostra ísola, nella nostra terra. 
Oggi e qui Francesco Casula illúmina il píccolo grande mondo degli scrittori Sardi, perché non è cosa da poco scrívere un saggio antològico sulla letteratura di un pòpolo e, in un certo senso, farne la storia, fare la storia della civiltà dei Sardi. Ed è questo l'oggetto della sua ricerca, del suo impegno, del suo studio, della sua esplorazione.
Casula ha tracciato la storia della letteratura della Sardegna, anche se, con molta modestia, non la nòmina neppure "la storia". Eppure, di storia della letteratura si tratta. Storia della letteratura della Sardegna che è anche storia della lingua dei Sardi, fin dalle sue orígini, perché la lingua è il "legame" che unisce in quell'astrattezza vitale, in quella spiritualità affratellante che i filòsofi chiamàvano "identicità". Nell'identità, appunto, come in una sola natura specificamente individuale dell'umanità, la lingua sarda unisce una gente, una stirpe e un pòpolo che vien fuori dei sècoli di continue "intromissioni", per non usare altri tèrmini piú aspri e violenti, e nonostante queste.
Letteratura e Civiltà della Sardegna è quindi "storia" della letteratura dei Sardi: un percórrere il tempo per il tràmite delle parole, attraverso le "espressioni" della lingua della Sardegna, della nostra lingua, fin dai primi documenti, dai contratti, dai làsciti, dai condaghi, per giúngere a noi, alla nostra "scrittura" da una scrittura che sa di civiltà preistòrica, sempre "a un passo" dalle nostre case, come direbbe Giuseppe Dessí, che sa di latino, ma anche di asiano, che sa di spagnolo catalano e aragonese, che sa di italiano e di francese, accanto all'altra, alla scrittura "ufficiale" di Italiani con la lingua di Dante. Storia questa, perciò, della letteratura della Sardegna che è anche storia della lingua dei Sardi, della lingua scritta e della lingua parlata; poiché la lingua scritta è la lingua parlata, quella che usiamo per comunicare, per esprímere passioni, sentimenti, decisioni, ragionamenti, volontà, quella che, in sostanza, è sempre la medésima, uguale a sé stessa, quella che ci dà, ecco, l'identicità, l'identità, il nostro id-ioma nazionale di Sardi, nel cui nome stesso troviamo la radice del nostro esser Sardi, l'id, l'idem, il medésimo, la medésima lingua, la peculiarità, l'idioma appunto, la stessa "identità", una corrispondenza spirituale irrinunciàbile, l'esser una cosa sola, pur con forme diverse e diverse manifestazioni, identidem, sempre.
Io non credo che la "voluta" dimenticanza, il vuoto della parola "storia" sia determinato da un dubbio che ha tolto l'inchiostro dalla penna a Casula, dallo stesso dubbio che ha colto Salvatore Tola, altro studioso appassionato di sardità e di lingua sarda, il quale si è fatto sedurre, ma non convíncere, dal pensiero dell'algherese Pietro Nurra che, autore di "Canti popolari sardi" e di una raccolta antològica di "Poesía popolare in Sardegna", sosteneva che non si pòssono definire "letteratura" gli scritti dei tantíssimi autori sardi, perché non non hanno "unità di concetto e lingua comune". E perciò nessuna letteratura e nessuna storia. E non ho dúbbi sul fatto che, sia l'uno sia l'altro, síano o no d'accordo con lui; anzi sono certo che la pènsano diversamente. In ogni caso, la parola "storia" manca, ma la "letteratura" resta.
E che cos'è la letteratura se non la glorificazione delle passioni, dei sentimenti, dei concetti che prèndono forma e manifèstano sostanza dai segni scritti, dalle léttere, dalle parole? Essa, in Sardegna, è l'insieme delle parole e dei pensieri che "costruíscono" storie d'umanità di tutti i Sardi che han voluto, in tutti i tempi, comunicare razionalmente, esteticamente, poeticamente e sensazioni e intuizioni e pensieri. Essa è espressione della poièsis, attività dello spírito, potere dello spírito, in versi e in prosa. E la civiltà da cui si sviluppa è l'intelligenza dello stare bene insieme, del vívere insieme con un senso profondo del dovere e del rispetto dell'uomo verso l'altro uomo, la coscienza della felicità di stare in pace gli uni con gli altri, scandendo il tempo verso il progresso.
E dunque, tra le cose "essenziali" di questo libro, oltre all'identità come collante che accomuna e come condizione naturale e metafísica insieme, oltre alla lingua come elemento "nazionale" e "vivo" dei Sardi che ci contraddistingue, nostra linfa naturale, oltre alla civiltà che cammina da sècoli con la parola scritta, ci sono i "píccoli spàzi" che Francesco Casula ha predisposto nel suo testo come preziose teche in cui presenta le sue novità, i punti chiave di comprensione.
Novità vuol dire anche originalità. Le novità perciò sono, forse, il maggior "pregio" del libro, nel senso che esse fanno della sua òpera una singolare guida didàttica alla lettura della produzione letteraria in Sardegna.
E vi troviamo la "Presentazione" dei testi, i "Giudízi crítici" arricchiti da quelli di numerosi altri commentatori, il settore ch'egli títola "Analizzare", in cui affonda la propria capacità interpretativa quasi scomponendo, sezionando ogni composizione scelta e, come ho scritto altrove, quale maestro didatta dei lettori, grande suggeritore e accompagnatore alla conoscenza, quasi interrogando gli autori, in una sorta di escussione risolutiva, perentoria; e vi troviamo, infine, "Flash di storia e civiltà" dove dà il giusto vígore ad ogni autore calàndolo nel proprio ambiente, con la opportuna luce agli scritti, con le informazioni precise sulla sua vita, sulla società in cui vive, sul suo tempo.
Ma la "novità" vera è ancora quella concatenazione di mezzi di conoscenza e comprensione, strumenti pròpri del clàssico "didatta", cioè di colui che fa coincídere il proprio insegnamento con il conseguente apprendimento da parte di chi ne ha curiosità, di chi vuole assaporare l'arte attraverso la lettura; e perciò ecco gli altri "spàzi", quelli che ho definito "línee guida" dell'òpera, i settori in cui si fanno precisi suggerimenti :"approfondimenti" intorno ai rapporti esterni, al luogo in cui vive l'autore, alla storia; "confronti", analogíe differenze con altri autori; "ricerche" tese ad allargare il campo della conoscenza, "spunti vàri", attraverso un invito a metter a fuoco determinate questioni, precise letture, per una riflessione a voce alta. E qui si appalesa maggiormente la volontà di Francesco Casula d'esser maestro e guida per una "scuola" che riacquista il suo primigenio significato greco di tempo líbero, di "tempo della cultura", corrispondente all'aurum otium litterarum dei Romani, il riposo, la pace, il tempo dedicato alle léttere.
Òpera per tutti, questa Letteratura e Civiltà di Sardegna, ma particolarmente destinata al mondo della scuola, ai freschi remigini come ai giòvani d'impegno già di salda schiena, un'òpera per tutti degna di un'attenta lettura, grazie alle qualità di scrittura chiara e sémplice di Francesco Casula che, con l'arricchimento culturale, ci dona anche la soddisfazione del godimento spirituale del lèggere, che è grande, talvolta, quanto il piacere dello scrívere.

8. CLAUDIA ZUNCHEDDU (nel suo blog 4 febbraio 2015)
sa sardigna no est italia - sa sardigna est in su mundu
"Letteratura e civiltà della Sardegna" 1° e 2° Volume
di Francesco Casula
Ho avuto l'onore di essere interpellata su quest'opera e ritengo che il Pensiero di Francesco Casula, in modo palese rimette al centro degli obiettivi di noi sardi, la nostra storia e l'esigenza di riappropriarci del nostro ruolo di protagonisti. 
E' curioso che Francesco Casula apra questo grande lavoro con una provocazione e cioè sul dilemma secondo cui i sardi abbiano avuto oppure no una storia propria. Secondo alcuni, noi sardi non abbiamo avuto una storia, secondo altri è la storia di un popolo vinto, per non parlare di alcune interpretazioni snob di certi francesi, che forti di una visione colonialistica delle relazioni tra i popoli, non esitano a sentenziare: "La Sardegna è rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi ". Così scriveva nel 1861 in Ile de Sardaigne, Gustavo Jourdan, un uomo d'affari francese, dopo il fallimento di un suo progetto che mirava a coltivare nella nostra Isola gli asfodeli per la produzione di alcool.
Se il Popolo sardo ha una Preistoria straordinaria e unica: la civiltà nuragica, come può non avere una sua Storia? La nostra è semplicemente una storia negata e sepolta dalle dominazioni coloniali. A noi sardi è stata tagliata la lingua e imposta quella del dominatore. E' stata occultata la nostra storia per sradicare la nostra identità e farci dimenticare chi siamo, impoverirci e indebolirci per renderci più dominabili. Anche a Popoli africani, sotto pressione coloniale, hanno fatto dimenticare chi fossero e da dove arrivassero, cancellando dalla loro memoria persino la storia dei loro potenti Imperi Neri, che nulla avevano da invidiare all'Impero romano e alla cultura del Rinascimento sia militarmente, che come produttori d'arte e di culture raffinate.
Non esistono popoli senza storia. Esistono popoli sotto un dominio coloniale, con una storia da disseppellire e liberare. L'opera di Casula è uno strumento di orientamento all'interno di un processo di liberazione della storia e della identità sarda. 
L'Autore inserisce i più illustri testimoni della nostra storia: scrittori, storici, scienziati e poeti, come porte aperte a cui accedere per riscoprire il valore e la bellezza della nostra identità. La Costante Resistenziale a cui fa riferimento Lilliu, il senso di appartenenza e di difesa delle nostre radici, ci ha reso forti e resistenti come alberi nati su terreni difficili. Penso ai ginepri del Supramonte con le radici fossili che sprigionano dalla roccia. Questi siamo noi sardi. La nostra resistenza ha fatto sì che si conservasse il nostro ricco patrimonio identitario, dalla musica con i suoi strumenti, alla poesia, all'arte e all'archeologia, alla gastronomia, alla biodiversità della nostra natura e al nostro bene ambientale, alla cultura orale di inestimabile valore, riconosciuta spesso come patrimonio materiale e immateriale dell'Umanità. Noi non abbiamo mai rinunciato a tutto ciò nonostante i violenti attacchi dall'esterno. 
Sull'ironia di Casula, nel raccontare che nel 2005 la Biblioteca del quotidiano La Repubblica stampò un volume di 800 pagine sulla Preistoria italiana escludendo la civiltà nuragica, ritengo che non sia una dimenticanza o un'omissione. Gli autori italiani, che noi sardi ringraziamo per l'onestà culturale, non possono aver dimenticato la preistoria sarda. Essi hanno preso atto che quella cultura così diversa, non poteva appartenere all'Italia, riconoscendo al di là di ogni artefatto politico che sa Sardigna no est Italia. E' dalla cultura nuragica che trae spunto la critica di Eliseo Spiga alla società della crescita che non rispetta l'ambiente, che consuma le risorse della Terra, senza garantire il benessere ai popoli, al concetto di "città che fagocita i territori". Di questo Pensatore, Casula riporta un concetto di grande attualità: "E' la civiltà della sovranità comunitaria, che non costruisce città ma villaggi, perché la città è ostile alla terra, agli alberi, agli animali e inselvatichisce gli uomini, pretende tributi insopportabili per accrescere le sue magnificenze... crea i funzionari del tempio e del sovrano... i servi e gli schiavi". 
Quest'opera è una bussola per i nostri giovani in un mondo globalizzato. E' uno stimolo per "disseppellire" la nostra storia e a riappropriarsi del patrimonio identitario, per giustizia, per missione e per necessità. Questa è la forza che permette a noi sardi di camminare e di confrontarci nel mondo, senza stampelle, senza la necessità di mediazione da parte di Stati dominatori o di tutori.

 

 

 

RECENSIONI DELLA “LETTERATURA E CIVILTA’ DELLA SARDEGNA”

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RECENSIONI DELLA "LETTERATURA E CIVILTA' DELLA SARDEGNA" da parte di un antropologo (Giulio Angioni sulla Nuova Sardegna), un giornalista (Alberto Testa su Il Sardegna), un giornalista scrittore (Pietro Picciau sull'Unione Sarda), uno storico(Gianluca Scroccu sull'Unione sarda). un altro giornalista scrittore (Gianfranco Pintore sul suo blog), una giornalista (Alessandra Mulas sul Quotidiano della CISL, Conquiste del lavoro), un poeta scrittore (Efisio Cadoni sulla Gazzetta del Medio Campidano), Claudia Zuncheddu, (già Consigliere regionale e leader di Sardigna Libera nel suo blog)
1. Giulio Angioni su La Nuova Sardegna del 21 ottobre 2012)
Mille percorsi dell'identità. Una mappa per ritrovarsi 
Nel primo volume dell'opera "Letteratura e civiltà della Sardegna" Francesco Casula riflette sul ruolo giocato dall'isola nella storia europea.
Francesco Casula, potrebbe dirsi, si è dedicato alla sua ultima fatica storico-letteraria con lo stesso piglio, aggiornato, del canonico Giovanni Spano rispetto alla mole dei suoi studi, cioè sentendo desiderio e dovere di "illustrare la patria" sarda. Casula ha dato finora, tra l'altro, molte prove di quanto anche un sardismo molto risentito possa essere supporto e spinta verso operazioni che meritano, come questa sua di proseguire una tradizione anche sarda ormai quasi bisecolare di storiografia letteraria, se si può considerare un inizio la "Storia letteraria di Sardegna" che Giovanni Siotto Pintor pubblicava nel 1843-1844.
Da allora non sono mancate le storie anche complessive della scrittura letteraria in Sardegna, come la "Storia della letteratura di Sardegna" di Francesco Alziator, di un secolo dopo, datata ma forse ancora utile per il materiale raccolto e messo a disposizione.
Un tema qui subito trattato e risolto è quello di quale sia l'oggetto dell'opera e che si debba intendere con l'espressione letteratura sarda o di Sardegna. Anche su questo tema, da ultimo anche una storia della letteratura in sardo, di Salvatore Tola, "La letteratura in lingua sarda". Testi, autori, vicende, del 2006, è anch'essa da considerare propedeutica a questo grosso lavoro di Casula, che dà ampio spazio e risalto alla produzione in sardo e la considera quella più autentica, anzi la più identitaria, auspicandone lo sviluppo: ma, come non può non accadere a chi affronti sensatamente un compito come il suo, le scritture letterarie dei sardi "dobbiamo valutarle non tanto per la lingua che scelgono, quanto per l'uso che ne fanno e per il modo di collocarsi esteticamente e non solo, in Sardegna" (p. 11). Del resto, secondo gli intendimenti del nostro autore, «l'intera letteratura sarda... risulta... autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore» (p.10).
"Letteratura e civiltà della Sardegna" si intitola quest'ultima corposa opera di Francesco Casula, di cui è uscito, nelle Edizioni Grafica del Parteolla, il primo dei due volumi previsti. Questo primo volume tratta dell'attività letteraria in Sardegna negli ultimi mille anni, dalla prima carta sarda rimastaci, quella cagliaritana del 1070, fin oltre il nostro quasi contemporaneo Salvatore Cambosu, che moriva nel 1962, arrivando alla nostra contemporaneità con Salvatore Satta, Giuseppe Dessì e Giuseppe Fiori che ci lasciava nel 2003. E ne tratta appunto come cosa a sé, soprattutto perché «è proprio l'Identità sarda il tratto che accomuna gli Autori che abbiamo scelto e trattato in questo volume" (p.11), dove la nozione di identità sarda sembra significare un comune modo di sentire che va con costanza ineguagliata, anche in quanto ereditato da epoche preistoriche lontane come quella nuragica, dagli scrivani delle corti giudicali ai romanzieri in italiano e in sardo del Novecento e del Duemila.
Alla nozione di "civiltà della Sardegna" usata nel titolo Casula tiene fede lungo tutto il suo percorso, dalla 'libertà' giudicale ai vari modi di egemonia pisana e genovese, all'invasione iberica, all'acquisto sabaudo, al triennio rivoluzionario settecentesco, al risorgimento italiano, alla prima guerra mondiale, al primo sardismo, al fascismo, alla seconda guerra mondiale, alla rinascita, all'industrializzazione malfatta e fallita nei modi e negli scopi: tutti momenti e temi che situano nella temperie dei loro tempi i vari prodotti letterari e i loro autori. Un fatto importante è che Francesco Casula è stato uomo di scuola per quarant'anni, perché in quest'opera l'intento didattico è strutturante, sebbene non proprio nuovo, se si ricorda almeno il recente manuale per le scuole superiori di Giovanni Pirodda, "Sardegna", per non dire della fortunata antologia di Giuseppe Dessì e Nicola Tanda, "Narratori di Sardegna", del 1973. In queste pagine di Casula l'impianto didattico si organizza in un dialogo propositivo costante con i giovani, secondo una formula che offre inquadramenti storici, letture, commenti autorevoli, inviti a proseguire la ricerca. Il tutto dentro un orizzonte, costantemente ridefinito, in cui il giovane studente sardo è invitato all'identificazione di sé sulla scorta della nostra attività letteraria.
Non è raro in Sardegna chi agisce in vari ambiti, compreso quello degli studi storici, mosso e sostenuto dalla convinzione risentita che l'antica diversità dell'isola debba certe sue negatività non solo alla storia millenaria di sudditanze ma anche a una sorta sottovalutazione, di conventio ad excludendum, persino di un complotto o, quando va bene, di costante distrazione del resto del mondo rispetto alla Sardegna, che così risulta al mondo molto meno di quanto convenga anche al resto del mondo. Casula partecipa in questa opera di questo modo di sentire il bene e il male dell'essere sardi. Ciò che più vi si apprezza è che esso sostiene, anche in quanto risentimento, a volte imprese meritorie che forse altrimenti non si darebbero. Bisogna augurarsi che il piglio rivendicativo sardista guadagni a quest'opera più lettori e abili utilizzatori nella scuola di quanti non ne renda perplessi.
(La Nuova Sardegna

 

2 Alberto Testa (Albatros) su Sardegna Quotidiano del 6 marzo 2012
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3. Pietro Picciau su L'Unione Sarda del 10-3-2012 
LETTERATURA CIVILTA' DELLA SARDEGNA", di Francesco Casula, Edizioni Grafica del Parteolla, pagine 275, Euro 20.
L'introduzione di "Letteratura e civiltà della Sarde­gna" (Edizioni Grafica del Parteolla) pone un sugge­stivo quesito preliminare: 
«È esistita una Letteratura e una Civiltà sarda? ». L'autore Fran­cesco Casula (nato a Ollolai. per circa 40 anni docente nei licei e e negli Istitu­ti superiori, dirigente sindacale. stu­dioso di storia e lingua sarda. scritto­re e giornalista) al 'termine di un do­cumentato e approfondito ragiona­mento - un viaggio storico e letterario utile per chiunque, a cominciare' dagli studenti - sostiene di sì. L'importan­te. avverte. è che la «produzione letteraria esprima una specifica e partico­lare sensibilità locale», Quindi una let­teratura sarda esiste se. «come ogni letteratura. ha i tratti universali della qualità estetica e se. in più è specifica, non tanto per questioni grammatica- " li, quanto per una questione di Iden­tità». E proprio l'Identità sarda l'ele­mento che avvicina gli autori inseriti dall'autore nel primo volume di "Let­teratura e Civiltà della Sardegna". 
Casula propone un itinerario stori­co-letterario che parte dalla nascita della lingua sarda e dai primi docu­menti per proseguire con la trattazio­ne di autori (di ciascuno presenta la biografia, un brano, un giudizio criti­co e una sezione per l'attività didatti­ca) che formano le fondamenta della nostra letteratura: Antonio Cano, Sigi­smondo Arquer, Girolamo Araolla, Giovanni Matteo Garipa e Fra Antonio .Iaria da Esterzili durante il dominio catalano-aragonese e spagnolo; Efisio Pintor Sirigu, Francesco Ignazio Man­nu, Diego Mele, Peppino Mereu e l'autore sconosciuto di Sa scomuniga de Predi Antiogu nel Settecento-Ottocen­to; Giambattista Tuveri, Antonio Gramsci e Emilio Lussu per un «nuo­vo stato e un nuovo ordine sociale». Tra i romanzieri del 1900-2000 sonò, stati scelti Grazia Deledda, Salvatore Satta e Giuseppe Dessì. Per racconta­re il banditismo e la società del males­sere, i codici 'barbarìcìni e i suoi ana­listì, Casula ha indicato Antonio Piglia­ru, Michelangelo Pira e Giuseppe Fio­ri. Sebastiano Satta è l'autore in lingua italiana inserito nel capitolo sulla letteratura identitaria del 1900-2000; mentre tra gli autori in lingua sarda fi­gurano.Antioco Casula (Montanaru), Pedru Mura e Salvatore Cambosu. 
La domanda iniziale sull'esistenza della letteratura e di una civiltà sarda è intrigante sia per la risposta che ne danno gli autori citati, sia per quanto lo stesso Casula sostiene per confuta­re l'affermazione: «C'è cm lo nega». E l'inizio avvincente del viaggio (crìtìco, storico, letterario) in compagnia del­l'autore. Alcuni,avverte Casula, «dubi­tano perfino che la Sardegna abbia avuto una storia tout court. Emilio Lussu ha scritto che noi non abbiamo avuto una storia. La nostra storia è quella di Roma, di Aragona, ecc. Lo , storico francese Le Roy Ladurie ha sostenuto che la Sardegna giace fu un angolo morto della storia. Francesco Masala, il nostro più grande poeta et­nico, parla di storia dei vinti perché i vinti non hanno storìa. Fernand Brau­del, il grande storico francese; diretto­re della rivista Annales che rivoluzio­nerà lastoriografia, alludendo ad al­cuni popoli mediterranei, forse anche all'Isola. ammette che la loro storia sta, nel non averne e non si discosta mol­to da questa linea raccontando che viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano ne1 Liba­no e la preistoria in Sardegna».

 

 

 

4. Giancluca Scroccu su L'Unione Sarda del 11 aprile 2014
SAGGISTICA
Letteratura e civiltà della nostra Isola nel doppio volume
di Francesco Casula
Verranno presentati domani, a partire
dalle 9, nella sala settecentesca della
Biblioteca Universitaria di Cagliari in
via Università 32, i due volumi di Francesco
Casula "Letteratura e civiltà della Sardegna"
(Grafiche del Parteolla, pagine 281 e 296,
40 euro). All'incontro, coordinato da Salvatore
Cubeddu della Fondazione Sardinia, saranno
presenti Bachisio Bandinu, Giulio Angioni,
Giacomo Mameli, Piero Marcialis.
Il lavoro di Casula, intellettuale e saggista
fortemente impegnato sul tema della storia,
della lingua e della cultura sarda, già autore
di un numero importante di fortunati volumi
su questi temi, è un lungo viaggio che accompagna
il lettore nella riscoperta dell'espressione
letteraria dei sardi dal periodo
giudicale ai giorni nostri. Sfruttando opportunamente
l'interazione tra il racconto della
storia della letteratura e il richiamo a puntuali
passi antologizzati di un numero vasto
di opere degli scrittori isolani, l'autore si
muove agilmente dai Condaghi ai protagonisti
della scrittura contemporanea. Ci sono
tutti i grandi nomi, da Sigismondo Arquer a
Peppino Mereu, da Gramsci a Lussu, passando
per Grazia Deledda, Salvatore Satta e
Giuseppe Dessi, che si affiancano a quelli
meno noti ma non per questo da dimenticare.
Un lavoro documentato e perfettamente
fruibile anche dai semplici appassionati o da
chi vuole avere a disposizione uno strumento
di consultazione esaustivo.
L'obiettivo di Casula è quello di far interagire
la produzione letteraria sarda con i suoi
tratti specifici identitari in opposizione ad
ogni tentativo omologante. A suo avviso il
patrimonio culturale ed etnico-linguistico,
espressione di una specialità che deve partire
da una condizione di marginalità acuita
ancora di più dal panorama costruito dai
processi di globalizzazione, mantiene però
una sua forte vitalità. Un'opera che dimostra
come i sardi, nonostante una storia di
sudditanza, siano riusciti a prendere il meglio
dagli influssi esterni facendo crescere
una cultura autentica e vivace, testimoniata
da una letteratura di assoluta originalità.

5. Gianfranco Pintore sul suo Blog del 14 maggio 2012):
"È esistita una Letteratura e una Civiltà sarda? È la domanda a cui risponde, positivamente "Letteratura e civiltà della Sardegna", di Francesco Casula. Insieme libro di testo per le scuole e godibilissima lettura, del lavoro di Casula è uscito recentemente il primo volume che partendo dalle prime espressioni conosciute di letteratura, la Carta del giudice Torchitorio, arriva agli scritti di Salvatore Cambosu. Edito da "Grafica del Parteolla", in libreria al costo di 20 euro, il libro si presenta come utilissimo sussidio per chi nelle scuole sarde volesse finalmente far conoscer agli studenti la storia della letteratura della nostra Isola. Di seguito la parte finale della introduzione a "Letteratura e civiltà della Sardegna"-

6. Alessandra Mulas su Conquiste del lavoro - Quotidiano della CISL 
Sabato 19 luglio/domenica 20 luglio 2014
Viaggio storico- letterario in Sardegna
Un saggio di Francesco Casula sulla peculiarità e autonomia di una cultura
Francesco Casula intellettuale e studioso di storia, lingua e cultura sarda già autore di numerosi volumi riguardanti queste tematiche ha voluto regalare una ricostruzione storica della letteratura sarda. Il secondo volume, il primo pubblicato nel 2011, prosegue il tracciato dando nuova linfa a grandi scrittori e letterati dimenticati che non trovano spazio nei programmi scolastici e di studio. Parliamo di romanzieri come Grazia Deledda, Salvatore Satta e Giuseppe Dessi; ma anche di Sigismondo Arquer, Peppino Mereu, Antonio Gramsci, Emilio Lussu, Nereide Rudas, Salvatore Niffoie di tanti altri nomi meno noti ma la cui produzione è di grande importanza per inoltrarsi in una terra antica che si inserisce in un panorama geopolitico importantissimo per la sua posizione strategica, al centro del Mediterraneo.
Nella sua opera, Letteratura e civiltà della Sardegna, Edizioni Grafiche Parteolla, presentata nella sua interezza anche nella sala Protomoteca del Campidoglio, l'autore propone un viaggio storico-letterario partendo dalla nascita della lingua sarda e dai primi docu­menti in volgare sardo per giungere fino ai nostri giorni. Siamo in presenza di una cultura letteraria autonoma, con caratteri e segni peculiari che non possono essere inseriti in un contesto dialettale, perché il suo è un percorso di letteratura nazionale sarda. Dalle parole dell'autore si comprende che si parla di un popolo che si porta dietro sempre le proprie radici ovunque si trovi "Una Letteratura sarda esiste se, come ogni letteratura, ha i tratti universali della qualità estetica e se, in più è specifica, non tanto per questioni grammaticali e sintattiche, quanto per una questione di Identità" e dunque "che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda".
I due volumi sono strutturati con una caratteristica prettamente didattica attraverso un modello di analisi, valutazione e comprensione dei testi, dando al lettore la possibilità di inoltrarsi all'interno di una cultura identitaria fortissima che traspare in tutta l'opera perché nella "complessa e difficile tematica dell'autoconsapevolezza e dell'individuazione personale e collettiva l'Identità è andata assumendo grande rilievo ...". Un'identità che pone degli interrogativi alla psichiatra, intellettuale e studiosa Nereide Rudas sui vari significati che questo termine e modello di rappresentazione sociale voglia esprimere. Argomento che ritroviamo in Grazia Deledda, Emilio Lussu, Giuseppe Dessì, Salvatore Satta i quali sottolineano che la Sardegna non è solo "uno scenario, uno sfondo, ma la vera protagonista, non un luogo ma il luogo, non l'oggetto ma il soggetto".
Presi dalla foga eurocentrica molti studiosi hanno volutamente dimenticato che la civiltà nuragica è stata la più grande della storia di tutto il Mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Terra aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del marecontro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli. La Sardegna, l'Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l'Isola dalle vene d'argento di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola felice è infatti Isola libera, indipendente e senza stato, organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all'egualitarismo e all'autonomia.
Finchè i Cartaginesi non invasero la Sardegna, per depredare e dominare l'Isola. Con il dominio romano fu ancora peggio, un etnocidio spaventoso. La comunità etnica fu inghiottita dal baratro, almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque "barbara" e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero arrendersi e sottomettersi.
La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante. Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse, la gestione comunitaria delle risorse, terre foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu reclusa entro la cinta confinaria dell'impero romano e isolata dal mondo. E' da qui che nascono l'isolamento e la divisione dei sardi, non dall'insularità o da una presunta asocialità. A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane.
Un'altra spaventosa ondata di "malasorte" si abbattè sull'Isola, soprattutto nell'800 ma anche nel '900, e si snoderà attraverso una serie di eventi devastanti: socio-culturali prima ancora che politico-economici. Fino ad arrivare ai nostri giorni: allo stato centralizzato
La storia dei Sardi, come nel passato, continua infatti ad essere caratterizzata da quella che il già citato Giovanni Lilliu chiama la costante resistenzialeche ha loro permesso diconservare il senso d'appartenenza ovvero "quell'umore esistenziale del proprio essere sardo ... costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l'attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno".
I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del Mediterraneo.

 

 

-PRSENTAZIONE A ORISTANO DEL LIBRO “SARDEGNA”

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PRSENTAZIONE A ORISTANO DEL LIBRO “SARDEGNA” di Pantaleo Ledda II Centro Servizi Culturali Unla di Oristano e la casa editrice Edpo venerdì 8 alle 16.30, presso l’Unla di Via Carpaccio, 9 a Oristano, presentano il libro “Sardegna” di Pantaleo Ledda, copia anastatica dell’originale dell’Almanacco per ragazzi del 1924. Lo presentano Italo Ortu già consigliere e assessore regionale nonché leader storico sardista e Francesco Casula storico e scrittore, autore il primo dell’Introduzione storica e il secondo della Prefazione. Ma ecco qui di seguito la mia prefazione Prefazione a SARDEGNA, sussidiario di Pantaleo Ledda di Francesco Casula La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, si tenta di ridurla al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano con i Savoia prima e l’Italia unita poi. Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo. Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Questo il vero motivo: non quello “ideologico” della civilizzazione, accampato da Carlo Baudi di Vesme che nell’ opera Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, scritta, su incarico del re Carlo Alberto tra l’ottobre e il novembre 1847 ma completata nel febbraio 1848, scrive che “Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d’istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana…E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo…”. Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini poverelli ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del cardinal Roberto Bellarmino e il Catechismo agrario, giacchè l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna. Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini – e siamo in pieno ‘800! – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”. Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – che per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877). I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale o statalista che di si voglia – e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale. Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione-italianizzazione” dell’intera storia italiana. A onor del vero, proprio nel periodo iniziale del Fascismo (negli anni 1922-1924) Giuseppe Lombardo Radice, alle dirette dipendenze dell’allora ministro della Pubblica IstruzioneGiovanni Gentile come direttore generale dell’Istruzione primaria e popolare, provvide alla stesura dei programmi ministeriali per le scuole elementari o primarie, prevedendo fra le altre anche l’uso delle lingue regionali nei testi didattici per le scuole con il programma Dal dialetto alla lingua, nel rispetto delle differenze storiche degli italiani e per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari, partendo dalla lingua viva. Questo volume di Pantaleo Ledda, un vero e proprio sussidiario per il triennio delle scuole elementari è frutto di quella temperie culturale, pedagogica e didattica favorita e ispirata dal pedagogista Giuseppe Lombardo Radice. Con questo “Almanacco” nelle scuole elementari della nostra Isola irrompe l’intero universo culturale sardo: dalla cultura materiale e dalle risorse e attività economiche e produttive (agricoltura, pastorizia, miniere, pesca, saline, acque termali) alla cultura immateriale (letteratura in primis); dalla geografia alla storia: dalle origini alla civiltà nuragica alle invasioni straniere. Con gli uomini sardi più famosi e de gabale (di valore): da Amsicora a Mariano IV, da Eleonora d’Arborea a Leonardo d’Alagon; da Giovanni Maria Angioy a Gianbattista Tuveri; da Grazia Deledda e Montanaru. Ma anche da uomini (poeti, scrittori, storici, letterati, vescovi e giuristi, scienziati e medici) meno conosciuti ma ugualmente illustri e che comunque hanno fatto la storia della Sardegna, arricchendola con la loro opera. Catalogati per singole città e paesi nativi, e ricordati in brevi ritratti, i Sardi li conoscono oggi quasi esclusivamente perché hanno loro intitolato qualche via, piazza o qualche scuola: penso a Sigismondo Arquer (l’intellettuale cagliaritano vittima dell’Inquisizione e condannato al rogo in Spagna, il primo autore di una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia di Sebastian Münster, uil più famoso geografo e cartografo tedesco del ‘500); o penso a Vincenzo Sulis e Domenico Millelire, due dei protagonisti nella lotta vittoriosa contro i Francesi nel 1793: a Cagliari il primo contro il generale Truguet e il secondo a La Maddalena contro Napoleone. O penso ancora al bosano Nicolò Canelles che introdusse la stampa in Sardegna; al medico di Arbus Pietro Leo, che contribuì grandemente alla rigenerazione della medicina sarda; allo storico Pietro Martini, uno dei fondatori della storiografia isolana; all’archeologo e linguista ploaghese Giovanni Spano (autore di un dizionario sardo-logudorese); all’oristanese Salvator Angelo de Castro, che si adoperò per l’istituzione delle scuole elementari in molti comuni della Sardegna. E a tanti altri ricordati in questo sussidiario. Insieme alla storia, la protagonista assoluta del libro di Pantaleo Ledda è la lingua sarda: nelle sue varianti e varietà ma anche nelle Isole alloglotte (è presente il Gallurese come il Sassarese). Il Sardo viene utilizzato nelle poesie: ad ogni stagione ne viene dedicata una. Ma anche nelle preghiere e nei precetti, nelle canzoni e canzoncine, nei proverbi e nei motti, negli scongiuri e nei dicius, negli scioglilingua,nelle cantilene e nelle ninne nanna, nei giochi, negli indovinelli e nelle leggende. Ad esprimere una vastissima e ricchissima tradizione culturale, soprattutto orale, una saggezza antica che ha sostenuto e guidato i sardi nella loro millenaria storia. Con la storia e la lingua sarda sono presenti le città, le località e i paesi sardi: con le feste e le sagre, i costumi e i riti. E le attività produttive, specie quelle legate alla campagna e all’agricoltura: con l’aratura e la semina, la fienagione,la mietitura e la trebbiatura, la raccolta delle ortaglie, la vendemmia e la panificazione. Ma anche la pesca: soprattutto del tonno. Il sussidiario rappresenta così per gli scolari del triennio delle elementari una vera e propria full immersione nelle cultura locale e nella sua economia: la scuola in tal modo non si pone come “altro” e separato rispetto alla vita e al contesto socio-economico-culturale-linguistico da cui il fanciullo proviene. Purtroppo questa ventata liberalizzatrice di lingua e cultura locale durò pochissimo: con il consolidarsi del regime fascista nel 1924, specie dopo l’assassinio di Matteotti, prevalse l’enfasi unificatrice, omologatrice e livellatrice tanto che fu avviata un’azione repressiva nei confronti degli alloglotti e, per quanto ci riguarda, della lingua e cultura sarda: fu vietato non solo l’uso della lingua sarda ma le stesse gare poetiche estemporanee. Anzi, il Fascismo ben presto, ad iniziare dagli anni trenta, imboccata la strada dell’imperialismo e dell’autarchia, tenterà di cancellare il concetto stesso di civiltà regionale e di regione e abolirà l’uso del Sardo, in nome dell’italianità, minacciata a suo dire da tutto quanto era “locale”. Sul’uso del Sardo abbiamo una vasta eco in una polemica scoppiata nel 1933 fra un certo Gino Anchisi, giornalista dell’Unione Sarda e il nostro grande poeta Antioco Casula (più noto come Montanaru), in occasione della pubblicazione dei suoi Sos cantos de sa solitudine., In un articolo Anchisi esortava Montanaru a scrivere in Italiano perché un poeta come lui “che ha maturato l’ingegno alla severa discipline degli studi e considera la poesia come una cosa seria”, aveva diritto a un pubblico più vasto. E concludeva affermando che la poesia dialettale era “anacronistica, roba d’altri tempi” e come tale andava relegata “nel regno d’oltretomba”. Montanaru rispondeva, sullo stesso giornale, affermando che “i rintocchi funebri” per la fine dei dialetti, da qualunque parte venissero, erano per lo meno immaturi. Seguiva la replica dell’Anchisi che ribadiva l’anacronismo e la fine dei dialetti e della regione: “Morta o moribonda la regione, è morto o moribondo il dialetto”. Nella disputa intervenne fra gli altri Antonio Scano, scrittore e valente giornalista letterario , il quale dopo aver polemizzato con l’Anchisi sulla vitalità della regione e della lingua sarda, così concludeva: “La Regione non può morire, come non può morire il dialetto che ne è l’insegna”. Replicherà anche Montanaru ma il suo articolo non verrà pubblicato né sull’Unione né su L’Isola di Sassari, che però giustificò il garbato rifiuto con la seguente lettera del 18 Settembre 1933: “Non si è potuto dare corso alla pubblicazione del suo articolo in quanto una parte di esso esalta troppo evidentemente la regione: ciò ci è nel modo più assoluto vietato dalle attuali disposizioni dell’ufficio stampa del capo del Governo che precisamente dicono: “In nessun modo e per nessun motivo esiste la regione”. Siamo molto dolenti. Però la preghiamo di rifare l’articolo limitandosi a parlare di poesia dialettale senza toccare il pericoloso argomento”. Evviva la verità! Nella replica – non pubblicata – Montanaru farà, in merito al Sardo, una serie di osservazioni estremamente interessanti e in qualche modo profetiche: ricorderà infatti che la lingua dei padri sarebbe diventata la lingua nazionale dei Sardi perché “non si spegnerà mai nella nostra coscienza il convincimento che ci vuole appartenere a una etnia auctotona”. Finito il Fascismo e affermatasi la “Repubblica democratica e antifascista” l’idiosincrasia – uso volutamente un termine eufemistico – nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare della lingua, continuerà comunque anche nel dopoguerra. Nel 1955,nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in “dialetto”. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero della Pubblica Istruzione – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a controllare eventuali attività didattiche- culturali riguardanti l’introduzione della lingua sarda nelle scuole. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a schedare gli insegnanti. E non si tratta di “pregiudizi“ presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“, invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa popolare sul Bilinguismo perché separatista e attentatrice all’Unità della Nazione! Oggi fortunatamente la situazione sta cambiando: le lingue locali e minoritarie hanno avuto un formale riconoscimento giuridico e normativo prima a livello europeo con la “Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie” poi a livello regionale con la Legge n.26 del 15 Ottobre 1997 sulla “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna” e infine a livello statale con la Legge n.482 del 15 Dicembre 1999 riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” in cui è presente la Lingua sarda. Tutto ciò a livello giuridico e formale ma purtroppo a livello pratico e sostanziale la cultura, la storia ma soprattutto la lingua sarda, per quanto riguarda la scuola e i libri scolastici, è ancora del tutto assente. La scuola italiana in Sardegna infatti ancora oggi è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Non a un sardo. E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo. Si studia Orazio Coclite, Muzio Scevola e Servio Tullio: fantasie con cui Tito Livio intende esaltare e mitizzare Roma. Non si studia invece – perché lo storico romano non poteva scriverlo – che i Romani fondevano i bronzetti nuragici per modellare pugnali e corazze; per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi; per corazzare i rostri delle navi da guerra. Nella scuola si studia qualche decina di Piramidi d’Egitto, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati, erette da centinaia di migliaia di schiavi, sotto la frusta delle guardie;ma non si studiano le migliaia di nuraghi, suggestivi monumenti alla libertà, eretti da migliaia comunità nuragiche indipendenti e federate fra loro. Si studia Napoleone, piccolo e magro, resistentissimo alla fatica!, ma non si spende una sola parola per ricordare che il tiranno corso, venuto in Sardegna, bombardò La Maddalena e sconfitto da Domenico Millelire, con la coda fra le gambe dovette ritirarsi e abbandonare “l’impresa”. Si studia insomma l’Italia dalle amate sponde e dell’elmo di Scipio, ma la Sardegna, con le sue vicissitudini storiche, le dominazioni, la sua civiltà e i suoi tesori ambientali, culturali e artistici è del tutto assente: un diplomato sardo e spesso persino un laureato, esce dalla scuola senza sapere nulla dell’architettura nuragica, della Carta de Logu, di Salvatore Satta e della lingua sarda. Quest’ultima pare addirittura cancellata. Eppure essa è la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari e sta a fondamento – per usare l’espressione dell’archeologo Giovanni Lilliu – dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazione e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea. Senza sa Limba i Sardi rischiano di essere Sardi dimezzati, sradicati, deprivati di un intero universo di suoni e di saperi. Dunque senza storia, senza memoria, senza identità. Persino quasi afasici. Soprattutto i giovani. Semiparlanti che non conoscono più la lingua sarda e parlano (e scrivono) un italiano frammentario, disorganizzato, improprio, gergale; la cui parola dice di sé solo le accezioni selezionate dal Piccolo Palazzi: senza metafore, senza natura,senza storia, senza vita. Lingua sarda che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenia hanno cercato di recidere. Ma anche quella lingua che pedagogisti come linguisti e glottologi, psicologi come psicoanalisti e perfino psichiatri, ritengono che nel curriculum scolastico si configuri non come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elemento indispensabile di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non disturba ma anzi favorisce lo sviluppo comunicativo degli studenti perché agisce positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. Essa infatti serve: per allargare le competenze degli studenti, soprattutto comunicative, di riflessione e di confronto con altri sistemi; per accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad altre lingue; per prendere coscienza della propria identità etno-linguistica ed etno–storica, come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi; per personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero delle proprie radici; per combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis; per superare e liquidare l’idea del “sardo“ e di tutto ciò che è locale come limite, come colpa, come disvalore, di cui disfarsi e , addirittura, “vergognarsi“; per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno“, viepiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico. Che oggi risulta essere, – dicevo – in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero. Con un numero di parole ormai ridotto al minimo. E poiché tra il pensiero e il linguaggio c’è un’interazione ne deriva che il pensiero stesso si è anchilosato, come il linguaggio. Nasce da queste considerazioni l’esigenza non più procrastinabile dell’inserimento della lingua sarda come materia curriculare nelle scuole di ogni ordine e grado. E un sussidiario come questo di Pantaleo Ledda, rivisitato e depurato della retorica patriottarda e italocentrica di quel periodo storico, sarebbe ancora utile, specie per l’apprendimento della lingua sarda.

-Università della Terza Età di Quartu 10° lezione a cura di Francesco Casula

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Università della Terza Età di Quartu 10° lezione a cura di Francesco Casula

DIEGO MELE

Il principe dei satirici sardi in lingua sardo-logudorese (1797-1861)

Nasce a Bitti (Nuoro) il 22 Gennaio 1797 da Anna Casu Delogu e Salvatore. Il padre, contadino, muore nel 1808, lasciandolo orfano a 11 anni, insieme ai fratelli, più giovani di lui, Maria Rosa e Battore. Il giovane Diego, a causa delle precarie condizioni economiche della famiglia, non può proseguire gli studi regolarmente: dopo due anni a Cagliari sarà costretto a ritornare a Bitti. Grazie alla vendita di un piccolo appezzamento di terreno, completerà gli studi in teologia a Sassari, dove si manterrà facendo da istitutore ai tre figli -Ignazio, Pietro e Gaetano- di un certo cavalier Ballero, comandante militare della piazza. Si laurerà in teologia nel 1826 e il 19 Marzo 1827 riceverà gli ordini sacerdotali. Giovanni Spano, archeologo nonché storico e studioso della Lingua sarda, suo compagno di scuola a Sassari, lo ricorda affettuosamente come faceto e improvvisatore vernacolo...di poesie giocose e satiriche. Le cui canzoni popolari, erano, come lo sono ora in bocca di tutti. Sempre lo Spano pubblicherà una decina di composizioni nelle sue antologie mentre alcune verranno riprese sporadicamente da altri, in particolare da due viaggiatori stranieri: il francese Auguste Boullier(In Le dialecte et les chants populaires, Paris 1865) e il tedesco Heinric F. Von Maltzan (In Reise auf der Insel Sardinien, Leipzig, 1869).

Diego Mele ha legato il suo nome soprattutto a Olzai, villaggio della Barbagia di Ollolai di cui fu parroco per 25 anni. Ma prima, dopo aver preso gli ordini sacerdotali gli fu affidata la reggenza della piccola parrocchia di Lodè, fu poi aiutante del parroco a Bitti, vicerettore a Oliena e vice parroco a Mamoiada dove prende aperta posizione contro la Legge delle Chiudende che abolivano le terre comuni per privatizzarle, creando così quella che allora veniva chiamata la "proprietà perfetta", con cui si abolivano i diritti comunitari, penalizzando soprattutto i pastori, che non a caso saranno quelli che la combatteranno più duramente. In seguito a questa sua presa di posizione, fu confinato in un convento dei cappuccini ad Ozieri (Dicembre 1832-Febbraio 1833). "Ove -scrive Pietro Meloni Satta-  addolorato di tanta ingiustizia e oppresso da crudo malore, sfogava i suoi lamenti colla Musa diletta, destando lagrime di compassione". Scriverà infatti in una sua poesia nel 1832: "O pena dolorosa/De custu coro afflittu/Senza fagher delittu/Est pianghende".

Rientra poi a Mamoiada, ma a Novembre viene destinato come prorettore a Lodè. Infine nel 1836 diviene rettore di Olzai dove rimarrà fino alla sua morte avvenuta il 16 Ottobre 1861.

"Una caratteristica del suo ministero -ricorda Salvatore Tola, curatore di un volume di Satiras- era la rigida osservanza delle disposizioni dei superiori, che lo spinse a far cessare la consuetudine del compianto funebre, s'attitidu, condannato come incitamento alla vendetta; e una netta inclinazione all'austerità, che finiva per scoraggiare l'uso del costume, i balli e ogni manifestazione che potesse sembrare pericolosamente profana".

Il miglior necrologio per la sua scomparsa -ricorda Bachisio Porru- è quello che Giorgio Asproni, deputato e suo compaesano, annotò nel suo diario: "L'interno dolore che io provo per questa perdita non è esprimibile...era uomo nato per amare e amò sempre. Nato povero non resisteva alla vista delle miserie altrui e dava il suo necessario per soccorrere i bisognosi: morì povero. Era senza contrasto il miglior ecclesiastico della provincia di Nuoro". ((Diario politico, III, 1980, p. 145).  

Questo per quanto attiene alla sua figura; per quanto invece concerne la sua opera occorre tener presente che le sue poesie per decenni circolano solo oralmente, solo un anno prima della morte accetta di dettarle al figlioccio, Pietro Meloni Satta. Siamo nel 1860: ma l'edizione a stampa avverrà nel 1922 nel volumetto Il Parnaso sardo del poeta bernesco estemporaneo Teol. Diego Mele.

 

IN OLZAI NON CAMPAT PIUS MAZZONE

1.In Olzai non campat pius mazzone

ca nde l'hana leadu sa pastura,

sa zente ingolumada a sa dulzura

imbentat sapa dae su lidone.

2.De nou han bogadu cust'imbentu

pro sedare veementes appetitos,

leadu han a mazzone s'alimentu

però l'han a piangher sos caprittos:

no li faghen a isse impedimentu

nemancu de Dualchi sos iscrittos,

de mazzone aumentare sos delittos

non podiat porcheddu ne anzone.

3.Sas puddas e caprittos e porcheddos

pianghen de sa zente sos errores

e de sos affligidos anzoneddos

mi paret de intender sos clamores;

a dolu mannu de sos pastoreddos

chi nde proan e sentire sos dolores,

custos sun sos gustos e sabores

de sa sapa de noa invenzione.

4.Totta canta sa zent'est post'in motu

pro fagher sos coccones de bennarzu,

c'han isperimentadu e han connottu

chi superat sa sapa de su varzu.

Pera Marras accudi a s'abbolottu,

no istes pro fadiga e pro incarzu

ischi chi tue puru ses procarzu

non ti dormas in custa occasione

5.Amigu, non ti dormas tue puru

si tenes calchi pudda in su puddile,

ca mazzone caminat a s'iscuru

e pesat dae lettu a s'impuddile.

Chi t'hat a visitare ista seguru

cando tenes porcheddos in predile,

si ti dormis in martu e in abrile

cun sa mere has a tenner chistione.

6.Pera meu, cunsidera su male

chi nos han custa orta causadu.

Unu forte nimigu capitale

pro sa sapa de nou han irritadu;

mazzone pro istintu naturale

contra de sos porcheddos hat juradu,

como dae su famen apprettadu

furat e tenet doppia rejone.

7.S'omine, si s'agatat in apprettu

zenza provvista e privu de recattu,

si furat dae famen inchiettu

non cummittit culpabile reatu.

Su chi leat e pigat in cuss'attu

tenet de lu pigare su derettu;

e nades chi mazzone est indiscrettu

si famidu si leat un'anzone?

8.Si furat in cuss'attu l'iscusade

ca su famen lu privat de sa vista;

postu mazzone in sa nezessidade

de fagher sa figura brutta e trista

cun piena e cun totta libertade

a ue podet si faghet provvista,

e isfidat su primu rigorista

a li negare s'assoluzione.

[...]

 

 

 

IN OLZAI FIUDA E NEN BAJANA

1.SAS BAJANAS DE OLZAI.

In Olzai viuda ne bajana

non nde cojuat pius, est cosa intesa,

sa levata nos faghet grav'offesa

però chie nos bocchit est Ottana.

2.Feminas chi maridu disizamus

nois semus andende malamente,

de cust'affare gasi nos nd'istamus,

non pensamus remediu niente?

Si custu male avanzare lassamus

pianghimus, creide, inutilmente;

eo bido s'infilu de sa zente

ch'est in catza e in pisca fittiana.

3de nos torrare dae caddu a pè

est sa idea chi jughent in testa:

sas de Ottana dividint cun su re

et omine pro nois non nde resta'.

Si leades consizu dai me

nde faghimus formale una protesta:

chi de issas non benzant ad sa festa,

antis ne mancu a comporare lana...

4.Si non ponimus rimediu prestu

Non codian de omine carrone

Su nde pigat una porzione

E issas si nd'acollini su restu.

Chi benin pro servir est su pretestu

però jughen diversa intenzione:

dae 'ucca nos lean su buccone

lassende nois a morrer de gana.

 [...]

 

Traduzione

IN OLZAI VEDOVA NE' NUBILE

1. LE NUBILI DI OLZAI. In Olzai vedova né nubile si sposa piú, è risa­puto: la leva (militare) ci fa un grande danno, ma chi ci getta a ter­raè Ottana.

2. Va male per noi donne che desideriamo maritarci: restiamo co­sì (indifferenti) verso questa questione, non cerchiamo di trovare rimedio? Se lasciamo avanzare questo male non faremo altro che piangere, credete, senza scopo; io guardo (piuttosto) all'affaccen­darsi delle persone che con tenacia si danno alla caccia ed alla pe­sca.

3. Il progetto che hanno in mente è di toglierci da cavallo per ri­durci a piedi: quelle di Ottana dividono col Re e per noi non resta­no uomini. Se accettate un consiglio da me eleviamo per questo una vera e propria protesta: quelle non possano venire alla festa, e neppure a comprare lana.

4. Se non mettiamo subito rimedio non lasciano (neppure) un cal­cagno d'uomo, il Re ne prende una parte e loro catturano il resto. Quello di venire come domestiche è un pretesto, in effetti hanno tutt'altra intenzione: ci tolgono il boccone di bocca lasciandoci a morire dal desiderio.

 

LA SARDEGNA CHE VORREI/1 ENERGIA E LAVORO

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        LA SARDEGNA CHE VORREI/1 ENERGIA E LAVORO

di Vincenzo  Sardu

Vi siete chiesti come mai in Sardegna c'è una disoccupazione così radicata? Colpa della crisi certo, ma questo problema esiste da sempre. Siamo diventati un popolo di emigranti, terra di gente che va via perché non c'è speranza e terra di gente che, se resta, soffre. Perché?

Escludendo i trattamenti pensionistici, abbiamo un Pil che fa ridere persino greci, portoghesi, spagnoli, figuriamoci gli altri europei. Vuol dire che non c'è niente di niente, che non ci sono imprese, aziende industrie. Gran parte del problema, nasce da qui. E perché non ci sono queste strutture produttive? Perché fare impresa in Sardegna costa più che in qualsiasi altra parte e non per il costo della manodopera. Ma per due variabili: trasporti e, soprattutto, energia.

Paghiamo l'energia mediamente il quaranta per cento in più rispetto a qualsiasi altra parte nello stivale. Il motivo? Non si sa ma di certo non per una ragione industriale: produciamo in Sardegna 1,3 volte il fabbisogno. Se il costo industriale fosse elevato, non se ne produrrebbe così tanta in più. Il fatto curioso è che quel trenta per cento di extra viene incanalato via cavo sottomarino verso la penisola e a prezzi non certo allineati a quelli che si pagano in Sardegna. Cosa provoca tutto questo, oltre alla beffa? Che le imprese non hanno alcuna convenienza a fare azienda e a produrre in Sardegna, togliendo quindi alla nostra economia uno sfogo importantissimo. Ecco spiegato come mai da noi la disoccupazione galoppa.

Ma attenzione, perché un po' ce la cerchiamo. Ogni volta che si parla di energia i sardi non sanno bene di cosa parlano e si limitano a riprendere slogan che sentono in giro. Per esempio, può essere più inquinante una centrale a carbone o unaa olio oppure un campo eolico o un campo fotovoltaico? Neanche a dirlo, sono migliaia di volte più nefaste le prime due. Allora perché tutta questa paura? Non sarà per caso che a qualcuno fa comodo agitare certi spauracchi per indottrinare l'opinione pubblica a pensare in un certo modo?

Svezia e Uruguay, due paesi lontanissimi e con caratteristiche differenti, hanno fatto la stessa scelta: energia pulita e rinnovabile per tutti gli usi non di grande locomozione. Per il cento per cento del fabbisogno nazionale. Avete una minima idea del potenziale che ha la Sardegna con le fonti rinnovabili? In tutta Europa è difficilissimo trovare una condizione migliore per sole, vento e mare. Abbiamo 24mila km quadrati di territorio e siamo poco più di un milione e cinquecentomila abitanti. La densità abitativa è talmente bassa che ci sono ampie porzioni di territorio dove non passa nessuno, neanche la fauna. Perché si dovrebbe avere paura di un prodotto che può dare tanta ricchezza?

Tra chi obietta c'è anche la diffidenza verso i soggetti produttori. Basterebbe una legge: i titolari e i controllanti di qualsiasi punto di produzione di energia rinnovabile devono essere sardi, incensurati loro e i loro familiari più stretti, e in caso di cessione di quote o di proprietà possono farlo soltanto a soggetti analoghi. Imponendo per legge anche una filiera interamente sarda, si terrebbero lontani fenomeni di infiltrazioni poco gradite. Ci sarà sicuramente chi troverà da obiettare con le storielle sulla concorrenza eccetera: me ne frego. In Sardegna è arrivato il momento di cominciare a dire anche qualche "no" e a imporre la nostra volontà. Se a Roma o a Bruxelles questo non piace, è un problema loro.

Sintetizzando: un piano energetico regionale che inizia con l'acquisizione della rete distributiva. Il gestore non è d'accordo? Si fa la legge e lo si obbliga. Anche in questo caso è giunta l'ora di far prevalere la nostra volontà. Piano energetico basato su uno sviluppo totale per la produzione di energie rinnovabili da istituire con un piano di attenzione ambientale, utilizzando in primo luogo le maestranze delle attuali centrali, che saranno formate al riguardo, ma anche creando nuove opportunità di lavoro. L'obiettivo può e deve essere una produzione anche 2-2,5 volte il fabbisogno attuale, per abbattere il costo pagato dalle famiglie e rendere molto più vantaggiosa per le imprese la produzione dei loro prodotti in Sardegna. E magari anche vendendo le eccedenze energetiche.

Pensateci. Finora ci siamo fatti abbindolare ma in realtà abbiamo sempre avuto al collo un guinzaglio con il quale siamo stati costretti a fare il percorso che qualcuno voleva che noi facessimo. L'energia è nostra, prendiamone possesso. E soprattutto diffidate dagli allarmi gratuiti. Ci possono essere la massima attenzione e rispetto per l'ambiente, ci possono essere strumenti per impedire che questo comparto diventi remunerativo per la criminalità importata, ci possono essere straordinari benefici in termini di occupazione. Da qui nasce il futuro

 

Peppino Mereu

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Peppino Mereu: il poeta maledetto e socialista

16 gennaio 2016

mereuFrancesco Casula

Il 14 gennaio scorso ricorreva il 144° anniversario della nascita del poeta tonarese Peppino Mereu. Giovanissimo inizia a cantare e a scrivere poesie. A 19 anni si arruola volontario carabiniere: durante i cinque anni della vita militare in vari paesi dell'Isola, conosce alcuni poeti sardi. Canta le sue poesie nelle feste e nelle sagre paesane dimostrando grandi capacità poetiche e di improvvisazione. Questi anni (1891-1895) segnano profondamente la sua formazione: prende coscienza delle ingiustizie e degli abusi di potere, tipici del sistema militare.

Di qui la sua critica spietata al ruolo dei carabinieri, che invece di essere difensori della giustizia sono spesso alleati degli stessi trasgressori della legge. Significativi a questo proposito i versi, diventati a livello popolare famosissimi, soprattutto nel Nuorese: Deo no isco sos carabineris/in logu nostru proite bi suni/e non arrestan sos bangarutteris. Proprio in questi anni prende consapevolezza dei problemi socio-economici-culturali della Sardegna e aderisce alle idee socialiste del tempo, un socialismo utopistico in cui il poeta individua la soluzione per i problemi delle classi lavoratrici e oppresse. Idee e valori socialisti che Mereu  diffonde affidandosi alle sue poesie per sostenere con nettezza, prima di tutto la libertà e l'uguaglianza: Senza distintziones curiales/devimus esser, fizos de un'insigna/liberos, rispettaos, uguales.

Per continuare con la rivendicazione del suffragio elettorale che i Socialisti propugnavano con forza e che il poeta di Tonara così canterà, - proprio nel 1892, anno della nascita del Partito socialista - Si s'avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres' hat haer votu/happ'a bider dolentes esclamende/"mea culpa" sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende. Oltre a denunciare le ingiustizie sociali e i soprusi subiti dal popolo - che in A Genesio Lamberti, invita alla ribellione - Mereu mette a nudo la "colonizzazione" operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra/s'istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu.

Il poeta nel Dicembre del 1895 per motivi di salute viene congedato: ritorna così al suo paese. La sua produzione poetica se da una parte è pervasa da motivi melanconici, dall'altra accentua la critica ai rappresentanti della Chiesa e del potere locale; se da una parte srotola poesie "dellamorte", dall'altra dipana componimenti scherzosi e allegri, brevi ritratti schizzati in punta di penna di figure e fatti di paese, irridente e maledicente come quando in Su Testamentu, sentendo ormai prossima la morte, nel confessarsi accusa e maledice, cantando con tutta l'amarezza di un cuore esacerbato, che raggiunge toni epici di violenza espressiva: pro ch'imbolare unu frastimu ebbia/a chie m'hat causadu custa rutta/vivat chent'annos ma paralizzadu/dae male caducu e dae gutta. Consumato dalla tisi, che candela de chera muore l'11 marzo 1901 a soli 29 anni.

La sua poesia più famosa è Nanneddu meu conosciuto in tutta la Sardegna grazie anche al fatto che è stato musicata e cantata da moltissimi gruppi musicali e cantanti sardi. Tra i componimenti che conosciamo è uno di quelli in cui sono maggiormente presenti finalità satiriche e politiche, civili e sociali, con una netta e precisa presa di posizione del poeta contro la malasorte, le ingiustizie del suo tempo e indirettamente contro la politica nordista e colonialista del governo sabaudo che sarà più esplicita in altri componimenti. Ricordiamo infatti che siamo alla fine dell'Ottocento, quando il nuovo stato unitario, nel tentativo di omogeneizzare gli "Italiani" emargina e penalizza - dal punto di vista economico e sociale ma anche culturale e linguistico - la Sardegna e il meridione, favorendo invece il Nord del paese. Soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia e al protezionismo, tutto a beneficio delle industrie del Nord e a danno del commercio dei prodotti agro-pastorali dell'Isola.

Il quadro che emerge da Nanneddu meu è quello di un'Isola dominata da tempos de tirannias; assediata da carestias che producono fame, costringendo il popolo a nutrirsi cun pane, castanza e lande; devastata da catastrofi naturali che distruint campos e binzas con sa filossera e sas tinzas; popolata da avvocadeddos ispiantados e quindi facilmente ricattabili; da preti avidi, tristos corvos/ pienos de tirrias/ e malas trassas. Il tono è ora di denuncia, aspro, acre e amaro; ora disincantato, malinconico e perfino tenero.

Leonardo Sole a proposito di Nanneddu meu  scrive che Mereu "offre un bell'esempio di poesia sociale, aspra e pungente contro gli sfruttatori continentali che hanno disboscato l'isola e continuano a spogliarla con l'aiuto dei printzipales sardi". Mentre Francesco Masala sostiene che "Si comprendono bene l'importanza e l'affetto che ebbe Peppinu Mereu nella comunità di Tonara e la permanenza della sua poesia nella tradizione orale della società barbaricina: su cantadore malaittu, ripudiato dai ricchi parenti borghesi, viene assunto dalla comunità popolare tonarese, a coscienza critica dell'ingiustizia sociale e dell'egoismo di classe. Presso le fonti di Galusè, il poeta malato, pallido, vestito coi tristi panni della malinconia e dell'ironia, bizzarro, selvatico, non bello, non simpatico, già vecchio a venticinque anni, appoggiato all'inseparabile bastone, sembra un asfodelo roso dal male, in attesa di un improbabile riscatto di giustizia, di salute e di amore".

Sempre a parere di Masala, "per capire la poesia e la figura di Peppinu Mereu, spirito inquieto e ribelle, non si tratta di frugare fra gli archivi, dove gli storici di professione trovano sos papiros, i documenti lasciati dai vincitori a futura memoria della loro bontà e della loro civiltà, ma si tratta di frugare dentro le viscere della nostra tradizione popolare, dentro la tradizione orale dei nostri pastori, dei nostri contadini, dove è rimasta la memoria collettiva dei nostri dolori, dei nostri terrori, dei nostri rancori, insomma della nostra di storia di vinti ma non convinti".

- See more at: http://www.manifestosardo.org/peppino-mereu-il-poeta-maledetto-e-socialista/#sthash.l6LePbBR.iwZhznln.dpuf

 


Emilio Lussu

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In occasione del Giorno della memoria che sarà celebrato il 27 gennaio prossimi mi piace pubblicare un articolo di Emilio Lussu su:


"Sardegna, Ebrei e «razza italiana»"

Giustizia e Libertà, 21 ottobre 1938

Le Journal des Débats pubblica, tra il serio ed il faceto, uno scritto in cui si attribuisce a Mussolini il proposito di relegare in Sardegna tutti gli ebrei italiani. Con i tempi che corrono, queste cose vanno prese sempre sul serio. Come sardo, nato in Sardegna e rappresentante di sardi, io mi considero direttamente interessato [...] .

Così stando le cose, è troppo giusto che gli ebrei italiani vengano a finire in Sardegna: essi sono i nostri più prossimi congiunti. Per conto nostro, noi non sentiamo che pura gioia. Essi saranno accolti da fratelli. La famiglia semitica uscirà rafforzata da questa nuova fusione. Semitici con semitici, ariani con ariani.

 

Mussolini va lodato per tale iniziativa. Anche perché rivela, verso noi sardi, un mutato atteggiamento.

Nel 1930, davanti a un giornalista e uomo politico francese che gli aveva fatto visita, pronunziò parole e propositi ostili contro l'isola fascisticamente malfida, e affermò che avrebbe distrutto la nostra razza, colonizzandoci con migliaia di famiglie importate da altre regioni d'Italia. Egli mantenne la parola e popolò le bonifiche sarde di migliaia di romagnoli e di emiliani.

Ma, a difesa della razza sarda, vigilavano impavide le zanzare, di pura razza semitica. L'immigrazione ariana è stata devastata dalla malaria e ora non ne rimane in piedi che qualche raro esemplare superstite.

Con gli ebrei, sarà un'altra questione. Essi saranno i benvenuti per noi e per le zanzare fedeli, le quali saranno, con loro, miti e discrete come lo sono con noi.

Sardi ed ebrei c'intenderemo in un attimo. Come ci eravamo intesi con gli ebrei che l'imperatore Tiberio aveva relegato nell'isola e che Filippo II di Spagna scacciò in massa. Quello fu un gran lutto per noi.

Ben vengano ora, aumentati di numero. Che razza magnifica uscirà dall'incrocio dei due rami!

Per quanto federalista e autonomista, io sono per la fusione dei sardi e degli ebrei. In Sardegna, niente patti federali. I matrimoni misti si faranno spontanei e la Sardegna sarà messa in comune. E quando saremo ben cementati, chiederemo che ci sia concesso il diritto di disporre della nostra sorte. L'Europa non vorrà negare a noi quanto è stato accordato ai Sudeti. Una Repubblica Sarda indipendente sarà la consacrazione di questo nuovo stato di fatto. Il presidente, almeno il primo, mi pare giusto debba essere un sardo, ma il vice-presidente dovrà essere un ebreo. Modigliani può contare sul nostro appoggio che gli sarà dato lealmente. Penso che dovremmo respingere la garanzia delle grandi potenze mediterranee e svilupparci e difenderci da noi stessi. Se gli ebrei d'Europa e d'America vorranno accordarci la decima parte di quanto hanno speso in Palestina, è certo che la Sardegna diventerà, in cinquant'anni, una delle regioni più ricche e deliziose del mondo, la cui cultura non avrà riscontro che in poche nazioni avanzate.

Ciò non toglie che i nostri rapporti non possano essere buoni, inizialmente, anche con l'Italia ariana; ma, da pari a pari. Vi sarà uno scambio di prodotti, e noi potremo, data la ricchezza delle nostre saline, rifornire l'Italia ariana, specie di sale, che ne ha tanto bisogno.

Naturalmente, non accoglieremo tutti gli ebrei italiani. Ve ne sono parecchi che, per noi, valgono gli ariani autentici. Il prof. Del Vecchio [1][2], per esempio, noi non lo vogliamo. E vi saranno parecchi ariani di razza italica che noi terremo a fare semitici onorari. Problemi tutti che risolveremo presto e facilmente.

V'è la questione del re-imperatore che, come si sa, ha fatto la sua fortuna come re di Sardegna. Si ha l'impressione che il decalogo razzistico sia stato compilato anche per lui. Non esiste infatti nessuna famiglia, in Italia, meno italiana della famiglia reale: essa non appartiene più alla razza italica pura. Di origine gallica, i matrimoni misti l'hanno corrotta a tal punto che il sangue straniero vi è in predominio palese. E il principe ereditario, figlio di una montenegrina, è sposato con una belga-tedesca; una principessa con un tedesco, e un'altra con uno slavo-bulgaro. Ariani ma non italiani. La futura repubblica sarda sarà magnanima anche col re di Sardegna. Lo accolse l'isola, fuggiasco dall'invasione giacobina, lo accoglierà ancora una volta, profugo dal dominio ariano-italico. L'isola dell'Asinara gli sarà concessa in usufrutto fino all'ultimo dei suoi discendenti. E potrà tenervi corte, liberamente, a suo piacere.

Colpisce invece che, per restare alla stessa fase storica, sia pressoché assente nella nostra memoria collettiva la deportazione di qualcosa come 50.000 sardi, a seguito della spedizione di Tiberio Sempronio Gracco nel 237 a.C. o, secondo altri, a seguito di quella del nipote omonimo nel 175 a.C. Sono i "sardi venales", sardi di poco valore economico, perché per la loro quantità fecero crollare il prezzo degli schiavi.

Perché in effetti la rimozione di quella lontana deportazione di 50.000 sardi fa compagnia all'oblio pressoché totale della deportazione di circa 290 sardi, tra politici ed ebrei, e di circa 12.000 internati militari sardi nei lager nazisti. E si trattava nella stragrande maggioranza di giovani. Una enormità di gente nostra allora e oggi. Fino a pochi anni fa, questa realtà restava totalmente sconosciuta ai più e, nel migliore e raro dei casi, il nome di una via in qualche nostro paese serbava il ricordo ormai smemorizzato.

(EMILIO LUSSU)

 

Eliseo Spiga, l'intellettuale controcorrente

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Eliseo Spiga, l'intellettuale controcorrente.

di Francesco Casula.

Inizio con l'analisi del suo romanzo: Capezzoli di pietra

Capezzoli di pietraè un avvincente e suggestivo romanzo costruito con fraseggiare, periodare e passaggi agili e felici; con un lessico acuminato, con straordinari intrecci che hanno inizio, si interrompono, si intessono di nuovo, si spezzano e infine si risolvono, facendo abbondante uso dei flash-back. Con soluzioni linguistiche e prosadiche fortemente personali: perché Spiga ha pochissimi debiti con la cultura accademica e difficilmente gli si può attagliare qualche "ismo" tradizionale.

Spiga si ribella allo sfacelo e alla società alienata della apparente razionalità capitalistica del sistema economico e sociale occidentale. In altre parole non si conforma e non si arrende alle logiche e alle ragioni della modernizzazione tecnicista, al mito dello Stato e del mercato, al dio moneta: ma non in nome di qualche società perfetta e ideale, di qualche "città del sole" utopica - alla Tommaso Moro o alla Campanella, tanto per intenderci - bensì della comunità nuragica, della sua organizzazione politica e sociale, della sua economia e dei suoi valori.

   Il tema che attraverserà l'intero romanzo è annunciato solennemente ed affermato apoditticamente fin dalla prima pagina e dal primo capitolo che sopra si riporta: "I miti della moneta e dello stato, che erano affluiti in cielo per oltre 50 secoli da tutti i punti dell'orizzonte e che si erano addossati gli uni agli altri fino a formare un'unica coltre, quasi un altro cielo, si squarciavano fragorosamente e rovesciavano sulla terra grandine vento e fuoco".

   La razionalità del sistema, la visione rettilinea e lineare della storia, la fede , sono fatte a pezzi, ridotte in frantumi, fin dall'esordio del romanzo. La civiltà industriale, - o più propriamente l'inciviltà industriale, per usare un'espressione del grande scrittore italiano PaoloVolponi- produce infatti immani catastrofi, mostruosi disastri, ciclopiche sciagure. L'Ordigno -questa è la potente immagine e il simbolo che Spiga utilizza per riassumere il trinomio città/stato/moneta- cui si oppone l'Organismo, ovvero la triade campagna/comunità/beni d'uso,  ha creato nuove barbarie: la pascoliana "truce ora dei lupi".

   La Sardegna è diventata così "un atollo nuclearizzato" in mezzo al mediterraneo e "l'occhio vitreo" dell'Ordigno, da milioni di teleschermi impone ordini sul mangiare, sul vestire, sul pensiero e sul sapere. Perché vuole ridurre tutto all'unità: "Un mondo. Una legge. Un'umanità indistinta, Una coscienza frollata. Un paesaggio spianato,. Una luce fredda". Insieme nelle città "persino l'aria scarseggiava e l'acqua era diventata quasi un articolo da farmacia".

   Cagliari è distrutta da un uragano di fuoco e di acqua e Nurgulè - il protagonista del romanzo è "trasportato dal diluvio come arca inzuppata, sullo sperone più alto del promontorio di Sant'Elia, nella sfera del delirio, al di là del tempo e dello spazio".

   Perché - ecco un altro suggestivo tema del romanzo - l'uomo contemporaneo non è più in nessun luogo e il tempo non sa ormai cosa sia. La moderna inciviltà urbana e industriale crea infatti sradicamento, estraneità, tragica solitudine, costante declino di tutti i valori, perdita orribile e insanabile del senso della totalità, disperante lacerazione e cancrena dell'individuo. E insieme cancella la dimensione del tempo storico: sia lo spessore del passato che la prospettiva del futuro, riducendo tutto a un presente astorico e senza tempo.

   A fronte di tale catastrofe e disfatta, Nurgulè rientra nel ventre materno e risale il tempo, con il suo spirito disincarnato, fino all'origine della biforcazione fatale in cui si era smarrita una parte dell'Umanità.

   Ritorna così al mondo delle origini, al mondo della natura, a uno splendido passato di bellezza: che ci lascia un'impressione di letizia, come se avessimo attraversato un paese amabile e felice.

   Il periodo nuragico, la società nuragica è infatti vista, descritta, rappresentata, cantata e celebrata nel romanzo come l'età dell'oro, arcana e felice,- soprattutto a confronto con

 

 

il buio del presente  - solcata com'è da lampi di magia che creano nel lettore stati d'incanto.

 E' la civiltà della sovranità comunitaria, che non costruisce città ma villaggi, perché "la città è ostile alla terra, agli alberi, agli animali e inselvatichisce gli uomini, pretende tributi insopportabili per accrescere le sue magnificenze...crea i funzionari del tempio e del sovrano...i servi e gli schiavi".

 E' la civiltà della gestione comunitaria delle risorse, della democrazia, dell'egalitarismo, dei rapporti amichevoli con gli altri popoli del Mediterraneo.

 E' la civiltà che rispetta l'ambiente, la natura, gli equilibri dell'ecosistema, della terra perché "non ci appartiene e siamo noi che le apparteniamo, siamo solo i suoi figli e non i suoi padroni".  E' la civiltà che identifica la Comunità e la Nazione sarda con i suoi nuraghi, "fiaccole perenni di indipendenza", simbolo"della libertà eterna della Confederazione delle

Comunità nuragiche"che si oppone"alla pretesa eternità delle monarchie divine raffigurate dalle piramidi nilotiche".

 E' la civiltà con il suo peculiare idioma, che sarà e proibito dai Romani, che avevano decretato il taglio della lingua e la crocifissione per chiunque fosse stato sorpreso a pronunciare una parola nuragica. "Le croci da quel momento furono i nuovi alberi piantati dallo stato: Ne furono piantati dovunque e in tutte le stagioni. Ciascuna di esse riguardava l'obbligo del mutismo. E col l'abolizione della lingua si dissolveva anche l'ultimo segno di riconoscimento e di appartenenza alla Comunità. Un mutismo che sapeva di peste. E la peste spingeva tutti verso l'ebetudine, dissecava il pensiero, calcificava le idee, annientava la creatività".

 Si tratta solo di lacerti lirici e onirici? Di struggente nostalgia per un antico splendore? Di una favola - sia pure bella - che Spiga sogna, invoca, almanacca, come una necessità fantastica e biologica, ma pur sempre una favola? L'invocazione di un mondo salvo e salvifico, di una tana, di un'arca di Noè per salvarci dalla disumanizzazione di una realtà dominata dall'Ordigno? Certo, può darsi. Ma non solo. E comunque se di favola si tratta, è una favola che parla di noi, di noi sardi e di noi uomini e donne del 2007. Dei nostri problemi. Delle nostre

 

FINE DEL REGNUM SARDINIAE [tratto da La Sardità come utopia- note di un cospiratore, Ed. CUEC, Cagliari 2006 pagine 151-154].

"L'evento politicamente più significativo dell'Ottocento sardo è senza dubbio la perfetta fusione, 29 novembre 1847, della Sardegna con gli Stati sabaudi di Terraferma ela fine del Regnum Sardiniae.

Il pretesto per decretare la fusione fu dato dalle manifestazio­ni pubbliche di Cagliari e Sassari per invocare che venissero estese alla Sardegna riforme liberali quali l'attenuazione della censura sulla stampa, la limitazione degli abusi polizieschi e qualche libertà commerciale. Dentro la cortina fumogena del riformismo liberale europeo, avanzavano, in posizione premi­nente, i nobili ex-feudali che, illecitamente arricchitisi con la ces­sione dei feudi in cambio d'esorbitanti compensi, ritenevano più garantite le loro rendite dalle finanze piemontesi piuttosto che da quelle sarde. In prima fila c'erano anche vescovi e preti, impiegati statali desiderosi di carriera e di migliori stipendi, un po' d'avvocati e altri professionisti in cerca di lustrini, commer­cianti e affaristi, specialmente continentali, razzolanti sempre più numerosi nelle aie sarde, e, infine, coro vociante e allucinato, folti gruppi di studenti universitari opportunamente masturbati dai gesuiti.

Ad una delegazione di quest'accozzaglia reazionaria, espressa dagli Stamenti, ormai ridotti a stato larvale, e da alcuni consigli comunali, sua Maestà Carlo Alberto espettorò con paterna tenerez­za la sua intenzione di formare con Sardi e Piemontesi, e qualche altro, una sola famiglia.

In effetti, al Re erano state presentate, in seguito ad una perfi­da manipolazione che si abbracciava con la perfida malafede del sovrano, non tanto programmi riformatori quanto la richiesta di perfetta fusione. In altre parole, gli autori della iniziativa scellerata, dichiaravano la rinuncia dei Sardi, commenta Girolamo Sotgiu, a quella indipendenza nazionale che aragonesi e spagnoli avevano secolarmente rispettato e che il regno sabaudo non aveva osato mettere in discussione anche se l'aveva svuotata di contenuto. La Sardegna, che era stata un regno con relativa autonomia all'inter­no del grande Impero di iberica magnificenza, si ritrovò ad essere provincia di uno staterello ottuso e famelico. E finì così, in una bolla regale, il Regnum sortito da una Bolla pontificia.

I Sardi, ovviamente, erano tutt'altro che convinti della rinuncia. Da più parti furono minacciati, ai piemontesi un'altra edizione dello scommiato del 1794, e ai gesuiti espulsione e morte, mentre i contadini scalpitavano all'idea della imminente sollevazione. Da Teulada vennero a Cagliari in moltissimi credendo di dover parte­cipare

 

 

 

alla rivolta. A Selargius c'erano cinquecento uomini armati sul piede di guerra e circa ottocento ce n'erano ad Aritzo, Orgoso­lo e Fonni. La Sardegna contadina, osserva ancora Sotgiu, sembrava rivivere l'ansia e la speranza dei giorni esaltanti dell'Angioy, pronta ancora una volta a scendere in armi per la sarda rigenerazione.

Gli avvenimenti, com'è noto, presero tutt'altra piega.

Il tenente generale Alberto La Marmora, proprio quello del Voyage en Sardaigne, giunse, ai primi del 1849, come commissario regio per pacificare l'Isola scossa da continui tumulti esplosi dalle gravissime condizioni economiche e anche da rinnovati senti­menti repubblicani filofrancesi. Conservatore e militaresco, il Generale si dedicò alla pacificazione affrontando il dissenso e la protesta con la repressione più brutale e la violazione sistematica delle meschine libertà statutarie. Per lui lo stato d'assedio divenne sistema di governo inaugurando la pratica della dittatura militare che, poco più di dieci anni dopo, diventerà usuale durante la guer­ra di conquista del Mezzogiorno da parte della monarchia italiana.

Il 24 febbraio del 1852, lo stato d'assedio, con l'invio del gene­rale Durando e di 500 soldati, fu imposto su tutta la provincia di Sassari per domare le agitazioni che vi si erano accese. Ancora nel 1855, lo stato d'assedio fu proclamato ad Oschiri per l'omicidio di un ingegnere.

Nel frattempo, tanto per non dimenticare, venne ribadito il divieto della lingua sarda e, da una Corte reale che parlava france­se, fu confermato l'obbligo dell'italiano già in vigore dal 19 maggio 1726 con l'incarico al gesuita Antonio Falletti di provvedere con un suo piano. Evidentemente, non era l'amore per la lingua italia­na che spingeva la Corte, ma la preoccupazione per la lingua che alimentava una cultura politica popolare di cui conoscevano bene la verve eversiva. Perciò, la Corte soffiava sempre sulla propagan­da razzistica contro i sardi ancora più brutti, sporchi, cattivi e anche pelosi, persino le donne avevano lunghi baffoni ed erano capaci di sparare da cavallo, e già diventati pocos, locos y malunidos.

Ma ormai Annibale è alle porte, come dicevano i sardisti quando temevano o si inventavano un pericolo, e si prepara il tempo in cui le catastrofi dei sardi da grandi si sarebbero trasformate in gran­dissime e, forse, irreparabili.

La Sardegna diventa subito terreno di conquista e di caccia per i nuovi capitali mercantili e industriali che la politica affaristica della Corte sabauda aveva mobilitato nei mercati finanziari d'oltralpe per dare sostegno al progetto cavourriano dell'Unità nazionale. Il sogno dell'indipendenza finisce nella soffitta o nascosto in qualche piega della coscienza. La dipendenza della Sardegna diventa totale, generale. Da dipendenti del Piemonte passiamo alle dipendenze di tutte le regioni del Nord-Italia e dei loro affaristi e speculatori. E, oggi, esiste al mondo qualcosa, qualche potere o volere, da cui non dipendiamo? Ma questo non è lo status di una colonia?

Lo Stato italiano, sin dai suoi primi mugolii, considerò la Sardegna come una sua appendice molto incerta, una colonia insomma e come tale barattabile. La cessione ai francesi fu ipotizzata per molto tempo. Quella a favore degli inglesi con minore convinzione. A quando la cessione piena agli Stati Uniti d'America?"

 

Presentazione

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PRESENTADU IN OLLOLAI SU VOLUMENE

"I VIAGGIATORI ITALIANI E STRANIERI IN SARDEGNA"

SOS BIAGIADORES ITALIANOS E ISTRANGIOS IN SARDIGNA

de Frantziscu - Casula

S'est presentadu in Ollolai in su mese de Santu Andria / Donniasanti (Crèsia de Sant'Antoni), a parte intro de Cortes Apertas - Atòngiu in Barbagia -, su libru nou de Frantziscu Casula "I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna" (Alfa Editrice-2015).

Sa prima presentatzione ufitziale de s'òpera, non pro nudda, s'est tenta in sa bidda de s'Autore, Ollolai pro s'apuntu. At presentadu su volùmene Bastiana Madau, giai Editor de Ilisso. Sunt inter­bènnidos su sìndigu Efisio Arbau e s'assessore a sa cultura Maria Laura Ghisu.

S'òpera cuntenit sa testimonia de 37 personà­gios (18 italianos e 19 istràngios: tedescos, frant­zesos, inglesos) chi bìsitant sa Sardigna (francu sos primos duos chi si nde faeddat in su libru; Ci­cerone, Dante e Cattaneo) e subra s'Ìsula nostra iscrient, fintzas libros medas (comente su generale La Marmora).

Sunt in antis de totu iscritores, romanzeris e giornalistas (ammento intre sos àteros Honoré de Balzac e Vittorini, Levi e Lawrence, Valery e Bon­tempelli, Savarese e Lilli); ma fintzas linguistas (Wagner) e literados (Boullier), polìticos (Cattaneo, De Bellet) e antropòlogos (Mantegazza e Cagnet­ta), dotzentes universitàrios (Gemelli e Le Lannou), militares (La Marmora e Smyth, Domenech e Be­chi), eclesiàsticos (su pastore protestante Fuos e su gesuita Padre Bresciani), nòbiles (Francesco d'Este, Von Maltzan.), archeòlogos (Harden) e fotògrafos (Delessert), imprenditores (Tennant).

Sos giudìtzios e sas valutatziones subra sa Sardi­gna e subra sos sardos sunt sos prus isvàrios. Unos  cantos infamantes e insultantes: comente cussos de Cicerone chi fentomat sos Sardos comente mastrucati latrunculi, inafidàbiles e disonestos. O cussos de su frantzesu Jourdan, chi delusu pro no èssere resèssidu, a pustis de un'annu istende in Sardigna, a traballare iscraria pro nde fàghere alcol, faeddat de una Sardigna abbarrada rebelle a sa lege de su progressu, terra de barbària intro sa tziviltade chi at assimiladu dae sos dominatores suos nudda àteru che sos vìscios issoro.

Àteros esaltant s'ospitalidade de sos Sardos co­mente su frantzesu Valery chi, segundu issu, istran­giare est a su matessi tempus una traditzione, unu gustu e guasu unu bisòngiu pro su sardu.

Un'àteru frantzesu, Boullier, innamoradu de sa Sardigna, in duas òperas subra sos cantos popula­res e subra sos costùmenes sardos, regollit, cum­mentat ma in antis de totu faghet a connòschere in Frantza meda poesia populare sarda.

Àteros, comente Wagner, istùdiant e analizant sa limba sarda, subra ue at a iscrìere òperas monu­mentales comente su Dizionario etimologico sar­do, La Lingua sarda e La vita rustica.

Analizat sa cultura e sa limba sarda Roissard de Bellet, nòbile frantzesu chi, mancari tratengèndesi in Sardigna carchi chida ebbia, iscriet su libru suo subra s'Ìsula dende resartu meda a s'istòria. In ma­nera atenta, at a osservare chi: «In Sardigna s'est ispàrghida una literadura sarda, gasi comente est sutzessu in Frantza cun su proventzale, chi s'est ar­ribbadu cunduna pròpia traditzione linguìstica».

Un'italianu, Francesco d'Austria-Este, isprimit giudìtzios severos meda subra sos viseres: «Abbai­daìamus sa Sardigna comente un'esìliu» iscriet «in ue istaìamus tres annos pro nos arrichire, o nos fà­ghere meritòrios in sa corte issoro.

S'inglesu Tennant, in s'òpera sua La Sardegna e le sue risorse, faeddat de sa netzessidade de una sèrie de intraprèndidas tentas pro abbalorare sa produtzione locale, pro favorire sas esportatziones e miminare sas importatziones. Indivìduat a custu propòsitu sos setores trainantes de s'economia sarda in ue interbènnere: s'agricoltura, sas minie­ras, sas indùstrias minores, su traballu in loco de sas matèrias primas, una polìtica fiscale prus pagu vessatòria e su turismu, gràtzias a s'ambiente in­contaminadu e galanu de sos logos, aunidu a sos monumentos antigos ùnicos in su mundu.

S'italianu Mantegazza, sotziòlogu, economista e mèigu, denùntziat s'abbandonu e s'isolamentu in ue sa Sardigna est lassada dae sos poteres mannos; s'impreu de mandare in s'Ìsula, comente esseret una Sibèria de Italia, funtzionàrios ruzos, bonos a nudda, ignorantes o, non basteret, infartados; s'as­sàrtiu a s'Ìsula dae parte de ispeculadores abrami­dos chi, a esempru, istratzant sas forestas, bìculu a bìculu, cun vandalismu ferotze; sa povertade istre­ma e s'insufitziente ordinamentu iscolàsticu; sos ergastolanos chi li dant a pensare chi sa sotziedade si vèndicat prus de cantu si potzat difèndere.

 

Bastià Pirisi

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Bastià Pirisi, politico e commediografo antifascista, pacifista e separatista

1 marzo 2016

unitreFrancesco Casula

Bastià (Sebastiano) Pirisi, è un intellettuale, scrittore e politico sardo di rilievo ma del tutto dimenticato e sconosciuto ai più. Nel primo dopoguerra aderì al Partito sardo d'azione e dopo la marcia su Roma rimase schierato su posizioni antifasciste. Si trasferì poi nella capitale dove si laureò e iniziò a lavorare. Con il consolidarsi del fascismo si tenne estraneo alla vita politica. Prima della fine della seconda guerra mondiale costituì un comitato clandestino invitando Emilio Lussu a mettersi a capo di un insurrezione per portare la Sardegna alla indipendenza statuale.

Nel 1944 uscì dalla clandestinità e nel 1946 fondò la Lega sarda, di cui era organo il periodico Voce della Sardegna. Il Movimento si ispirava al separatismo siciliano, ma sebbene l'aspirazione a una Sardegna indipendente fosse diffusa anche nel Psd'Az, la Lega partecipa alle elezioni della Costituente del 2 giugno 1946 (con l'incoraggiamento del leader siciliano Finocchiaro Aprile e dello stesso Camillo Bellieni) ma ottiene solo 10486 voti, partecipa altresì alle successive elezioni amministrative con risultati modesti spegnendo così, almeno temporaneamente, la fiammata indipendentista. Il mancato riscontro elettorale portò la Lega alla scomparsa.

Molti i  suoi scritti politici, pubblicati soprattutto su l'Unione sarda e su Voce di Sardegna. Ma la sua opera più sorprendente è la commedia in lingua sarda S'Istranzu avventuradu- Cumedia ind'unu actu che, nel 1969 per la sezione Prosa drammatica, vincerà il Premio Ozieri con questa motivazione: "La Commedia, che presenta un fatto vero accaduto in Sardegna nell'ultima guerra, mostra scioltezza ed efficacia nel dialogo, padronanza nello svolgimento della sceneggiatura e notevole incisività nei caratteri dei personaggi. Indovinata la rievocazione di costume e d'ambiente, tipica della gente sarda di quel tempo. Notevole la purezza e la proprietà di linguaggio aderente alla più schietta parlata logudorese".

La commedia narra la vicenda di un Tenente di complemento dell'Aviazione americana che, in piena guerra (siamo nel 1943), si paracaduta da un aereo militare vicino a Capo Caccia (Alghero). Ecco come l'Autore descrive il fatto:Bidimus bolende comente unu lampu in altu meda, un areoplanu deretu a su chelu supra Monte Olidone, totu inghiriadu de neuleddas biancas che nie...Induna induna, accò qui distinghimos subta sas alas unu telu tundu falende lentamente, mentras qui s'areoplanu, l'haimus già supra a nois derettu a iscumparrere ad sa 'olta de Cabu Cazza...Ei tando sas batterias giambant su tiru e si la leant cum su telu...«cussu est unu pararutas!»narat su padronu...«Abbaidade! ...No lu idides s'homine trattesu dae sas funes?» Sas batterias zessant su fogu...s'homine agganzadu sighit a falare, ma su entu de levante lu trazat supra sos iscollios... (Vediamo che vola velocissimo nel cielo un aereo sopra il Monte Olidone, interamente circondato da nuvolette bianche come la neve...Improvvisamente ecco che distinguiamo sotto le sue ali un telo tondo che scende lentamente mentre abbiamo già sopra di noi l'aereo che diretto verso Capo Caccia, scompare. Allora le batterie (contraeree) cambiano tiro e se la prendono con il telo...«quello è un paracadutista!» dice il padrone...«Guardate!..non lo vedete l'uomo trattenuto dalle funi?» Le batterie cessano il fuoco...l'uomo agganciato continua a scendere, ma il vento di levante lo trascina sopra gli scogli...).

Il suo destino sembrava segnato: essere divorato dai pesci. O comunque fucilato dai tedeschi come spia. Si salva invece e ospitato e nascosto da Don Vittorio Serra, conte di Roccamanna e dai suoi amici, ritornerà sanu e liberu a domo sua, in America ... pro abbrazzare muzere e fizu. La vicenda del tenente americano, per l'Autore è solo un pretesto per "confezionare" una Commedia politica, con la Sardegna (ma soprattutto Cagliari) a più riprese bombardata dagli Anglo-americani, con una guerra più volte definita nel testo come malaitta (maledetta). Emerge con chiarezza il Sebastiano Pirisi pacifista e antifascista, sardista e separatista.

Denuncia infatti una guerra maledetta che ha molti padri: il re (a cui la corona di imperatore l'hat frazigadu su car­veddu!), Mussolini (cuddu ciacciarone de teracazzu), Hitler (s'anticristu fuidu dae s'inferru).Alla figlia Donna Juannica (Donna Giovannina) che sostiene: "La guerra, a quanto mi hanno assicurato, a Roma, l'ha voluta il popolo italiano, quasi per intero", Don Vittorio Serra, uno dei personaggi più importanti, in cui non è difficile riconoscere l'Autore stesso, replica infatti :"Quello che io non riesco a comprendere è come mai il nostro Re ha dato mano libera a quel parolaio, servaccio dell'anticristo fuggito dall'inferno...A meno che la corona di imperatore non gli abbia infracidito il cervello!...

E certo responsabili sono anche gli Italiani, maccos che loa (completamente pazzi). Sugli Italiani Sebastiano Pirisi - sempre per bocca del Conte Serra - è durissimo. Li accusa di bieco opportunismo, di trasformismo, di mancanza di coerenza. "L'italiano? - si chiede il Conte che conosce bene la storia e ha letto Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa - ...che custodisce nel baule cento bandiere, una diversa dall'altra, sempre pronto a esibirne una dal balcone, di volta in volta, a seconda dell'occasione che si presenta?"

Ma comunque i Sardi cosa c'entrano con le pazzie degli Italiani? Infinis, eo mi pregunto ite neghe nd'haimis nois Sardos de totos sos degoglios de su continente, qui hant provocadu tantu male ad s'humanidade? (Infine io mi domando - dice ancora il Conte - che colpa ne abbiamo noi sardi di tutti i massacri del continente, che tanto male hanno provocato all'umanità"? Come Sardi aspettiamo ancora una risposta, a questo interrogativo del Conte di Roccamanna, ovvero del sardo-separatista Sebastiano Pirisi.

 

Bernardu De Linas

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Il 5 marzo prossimo a Villacidro (ore 11.30, Caffe Letterario, Via Zampillo, 6) si terrà un Convegno sul poeta  BERNARDU DE LINAS. Ecco la mia relazione.

 

 

LUIGI CADONI (Bernardu de Linas)

di Francesco Casula

Premessa

Il mio sguardo sarà rivolto esclusivamente al Bernardu de Linas poeta sardo-capidanese così come emerge dalle Favolas, il suo capolavoro, in cui dimostra maggiormente la sua cifra di poeta umoristico, satirico e comico. Anche se occorre precisare che tale cifra informa non solo le altre poesie in limba (non contenute in Favolas (1909), come la trilogia di poemetti: Cosas de arriri: Chantecler sardu o siat Sa riconciliazioni de su caboni e de su margiani (1910), Unu brutt'animali,(1911-12), S'egua Ghiani, probabilmente andato perso e Concu Franciscu Elenu (1917), un'inedito poemetto in 82 strofette che ora è contenuto, insieme alla trilogia in Un Hibou dal volo d'aquila, a cura di Efisio Cadoni e Martino Contu,) ma anche - sia pure parzialmente - le sue uniche poesie in Italiano contenute in Fantasmagorie (!904) e persino la sua produzione giornalistica, come collaboratore del settimanale cattolico La voce del popolo.

 

1 "Favolasin dialetto sardu campidanesu".

La silloge, scritta a sa manera campidanesa, avendo abbandonato s'italiana rima, dopo la protasi,che funge anche da presentazione e da dedica a un amico, nella prima parte contiene 19 poesie in cui l'autore ha per ghia Esopu e Fedru. Protagonisti delle 19 favole sono su margiani, su molenti, su cerbu, su crobu, su boi, su lioni, is topis, su mulu, su bestiolu, su cani, sa coipira, sa formiga, su lupu, s'angioni, su serpenti, sa grui, is rundileddas, su zerpedderi, sa craba, is ranas. Sono gli animali tipici di Esopo e Fedro cui il poeta si ispira ma che rielabora e reinventa personalmente e che non solo parlano in sardo ma che della lingua sarda hanno lo spirito e il respiro vitale che nutre valori di riferimento esclusivi e precisi. Ci troviamo dunque di fronte a un lavoro che pur nel rimando a modelli letterari consacrati, mostra ampi spazi di originalità. Tanto che anche quando si tratta di animali estranei al patrimonio zoologico della Sardegna, Bernardu de Linas li riduce a una dimensione geo-antropologica precisa, che li fa sembrare animali nati e vissuti in precisi  ambienti de Biddaxidru: come nel suo cortile sulla Fluminera: toponimo che ben conosciamo da Giuseppe Dessì che in Paese d'Ombre lo ricorda più volte.

In secondo luogo a fare la parte del leone è su margiani, protagonista in ben 8 poesie: e questo "presenzialismo" non è casuale. La volpe è l'animale più detestato in Sardegna. Soprattutto dai pastori. Per i danni che fa alle greggi, per i metodi perfidi con cui compie le sue stragi, per il suo continuo nascondersi che l'ha fatta assurgere a simbolo di inaffidabilità. La condanna della volpe da parte del sapere proverbiale dei sardi è senza appello, soprattutto nel mondo agropastorale. Non b'at matzone chi non fetat fine mala, recita un antico diciu sardu. E un altro: donzi matzone benit a perder sa coa. Curiosamente, espressione e paradigma di questo adagio sardo è proprio una poesia di Bernardu de Linas, anzi la prima delle Favolas: Comente margiani iat perdiu sa coa. La sua "volpinità" infatti non serve per salvarlo de unu lazzupotenti che lo rende unu margiani scoau.

I poeti in lingua sarda -soprattutto quelli più radicati nel mondo della campagna- si sono sbizzarriti a cimentarsi -come appunto Bernardu de Linas- sul tema della volpe e della "volpinità".

Penso a questo proposito a un poeta di oggi, come Franciscu Carlini, che della volpe parla in ben sei "Faulas in versus e in prosa" contenute nella silloge bilingue, che non a caso titola Marxani Ghiani e Ateras Faulas (edita da Edes, Sassari 2005) e che altrettanto non a caso, dedica proprio a Bernardu de Linas scrivendo: "Pro ammentu de su poeta satiricu Luisu Cadoni, alias Bernardu de Linas".

 

2. "Atteras poesias umoristicas"

Nella seconda parte della silloge sono contenute invece 28 poesias diversas, che trattano argomenti vari e plurimi: infatti fattu prus baldanzosu, Bernardu dice adiosua Esopu e Fedru per sighiri su viaggiu a solu, tostorrudu che unu bestiolu!!! .

E così la sua poesia, "il suo cantare vernacolo -scrive opportunamente Efisio Cadoni nella prefazione all'edizione di Favolas della Gia del 1987- "si fa più libero e forte, più elegante, più incisivo, più musicale, ricco di novità, di invenzioni, di storie, di personaggi affascinanti, trainanti, simpatici".

Svincolato infatti da qualsiasi ascendenza o riferimento ad altri poeti, la sua poesia vola più libera e briosa, divertente e saporosa, segnatamente nei migliori sonetti in cui mette in luce gli aspetti paradossali, ridicoli, comici: penso a Su studianti"chi fiat tontu che unu bestiolu" e che "po no fai un'accabu troppu miserabili/s'arruolat sergenti o guardia de presoni" mandando così in frantumi le speranze, le attese e le aspettative  della madre che lo sognava e desiderava "cun tanti de laurea o predi o generali".  

O penso a Maistru Cicciu:"nasciu in Casteddu, basciteddu che unu fazzoni, sabateri de professioni, sabiu e onestissimu" ma che nonostante lavori"totu sadì"non riesce mai ad arricchirsi. Si tratta di un sonetto di una musicalità scoppiettante, pirotecnica, travolgente.

La straordinaria e prorompente musicalità del verso e della parola è presente anche in molti altri sonetti: segnalo in modo particolare Su molenti de ziu Nassissu e De mal in peus. A quest'ultimo però probabilmente nuoce un insistito moralismo predicatorio nella denuncia dei "lazzaronis, usuraios e Epulonis" ma soprattutto nell'attacco ai "lupus massonicus e socialistas, scetticusmaterialistas" campioni dei vizi del secolo (peus- secondo il poeta- de s'ateru): dall'ipocrisia alla superbia e alla boria. Per colpa di massoni e socialisti "su spiritu anticristianu/in mes' 'e is populus/regnat sovranu". Spirito anticristiano e "miscredenzia" che secondo il poeta -in una visione cristiana che oggi potremmo definire fondamentalista e integralista- contribuisce alla crescita "de sa delinquenzia".

3. La musicalità nella poesia di Bernardu de Linas.

Un tratto precipuo della poesia di Bernardu de Linas è dunque la musicalità: tanto che quasi tutti i suoi componimenti possiamo considerarli dei "Canti". E per il canto Bernardu de Linas mostra una naturale attitudine. Come per il verso: che carezza e coccola e che tesse abilmente tanto che il suo lavoro -nei momenti migliori- si risolve nella cadenza della strofa, nel giro musicale della frase, nella misura metrica di ritmi sapientemente scanditi grazie a un orecchio musicale che crea sinfonismi e fonie, onomatopee e cromatismi, ritmi, assonanze e consonanze.

Certo occorre anche dire che la musicalità è un tratto tipico della stessa lingua sarda. La Lingua materna, il dantesco "parlar materno"  - per noi il Sardo- è infatti la prima lingua della poesia e della musica. Per il bambino, l'infante, che l'apprende direttamente dalla madre, appunto, essa è soprattutto senso, suoni, musica: lingua di vocali. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l'anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo. Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti - gli aedi greci per esempio - non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine "lirica" e "aoidòs" in greco significa "cantore".

Cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l'energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua - il Sardo - che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende -talvolta in modo nascosto e subliminale- senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo.

 

4. Il tono della poesia di  Favolas

Prevale nella poesia di Favolas, un tono medio, per così dire ariostesco o, se vogliamo, oraziano: un tono arguto, brioso, vivace, quasi scoppiettante e sempre divertito e divertente. E insieme ironico e autoironico: mi riferisco - ma è solo un esempio - alla poesia che conchiude la silloge di Favolas e che ha per titolo "Morali". In questa, dopo aver amabilmente ironizzato su una serie di personaggi (Maitagattu Sebastianu/est unu umili pittori/chi pofinzas a Tizianu/si creit di essi superiori; Ziu Bissenti Peitrebiu/poita liggit su breviariu/si creit di essiri istruiu/cant'e prus de su vicariu), ironizza anche su se stesso, e non solo per una sorta di par condicio: E deu puru chi mi creu/u' segundu La Fontane/a sa fini it'est chi seu?/Un hibou fade e vilain!

 

 

 

 

In tal modo nelle Favolas il poeta villacidrese rivela - cito ancora il suo massimo studioso che è Efisio Cadoni - "la sua multiforme ironia, sdegnosa, scanzonata e canzonatoria, satirica, sottilmente dissimulatoria, paesanamente arguta...capace di saper ridere, per superare le angosce e le amarezze della vita, di tutto, di tutti e di se stesso".

Cui aggiungerei il sapore della caricatura e della parodia, improntata però alla moderazione: che non sconfina cioè nello scherno furioso, nell'odio o nell'ira. Anche quando è mosso dall'indignazione o da un'esigenza etico-religiosa cristiana, molto forte e sentita e vuole frustare e fustigare i vizi e le miserie umane, gli errori e i tic de is concas de cipudda (vedi in particolare l'ultima poesia delle Favolas, intitolata Morali e già citata) lo fa bonariamente: per così dire, ridendo castigat mores. In cui "sa critica" - come scriverà programmaticamente in Sa torrada a s'Elicona -si coniuga sempre "cun s'ingredienti de sa pietade".

Solo nei confronti di un assassinu (nella poesia A unu assassinu) perde in qualche modo il consueto equilibrio e tono medio ricorrendo a epiteti forti e particolarmente duri: "vili delinquenti...maledittu...su rimorsu però de su delittu/e su tristu arregordu de is feridas/t'hat atturai 'n su coru eternamenti!"

5. Il Sardo-campidanese di Bernardu de Linas.

Dopo l'esperienza poetica giovanile di Fantasmagorie, Bernardu de Linas verseggerà esclusivamente in lingua sarda: in cui, fra l'altro, darà il meglio di sé, segnatamente con il suo capolavoro Favolas. Forse non è casuale: gli è infatti che solo la lingua materna gli permetteva di "cantare" - a sa maneracampidanesa - liberamente, il suo mondo, ovvero senza lacci né ascendenze letterarie esterne: di Pascoli o Carducci poco importa

Una lingua, che il poeta ben conosce, padroneggia, curva e piega a suo piacimento, plasmandola e curandola con maestria e sicurezza. Una lingua, quella sardo-campidanese, comunque che già di per se stessa risulta particolarmente adatta per esprimere la satira, il comico, l'ironico, il giocoso: più delle altre varianti della lingua sarda. Forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni atteggiate dall'anima popolare nella forma del paradosso, della battuta, della satira. Questo spiega - fra l'altro - perché in sardo-capidanese sono state prodotti capolavori come Sa scomunica de prediAntiogu.

Il sardo del poeta villacidrese inoltre si rivela - come il poeta stesso si era augurato e promesso - "tersu e luxenti, plenu de musica, de forza e briu". Ovvero lingua duttile e flessibile, viva, fresca e prorompente, pregnante, espressiva e altamente significante, in grado di tradurre le abbondanti metafore e allegorie, le sentenze e le massime epigrammatiche, i simboli e le allusioni, i paradossi e i giochi di parole. Ma anche le ripetizioni, le contrazioni sintattiche e le brachilogie.

Pur poetando in sardo-campidanese, Bernardo de Linas conosce e padroneggia anche il logudorese: in questa variante compone Risposta de

 

 

 

Citerea, contenuta in Favolas. E anche questo non è casuale: molti cantadores e poeti campidanesi utilizzavano anche il logudorese come lingua veicolare dei loro componimenti, evidentemente ritenendolo - a torto o ragione poco importa- la variante più letteraria della Lingua sarda.

Fantasmagorie, Bernardu de Linas verseggerà esclusivamente in lingua sarda: in cui, fra l'altro, darà il meglio di sé, segnatamente con il suo capolavoro Favolas. Forse non è casuale: gli è infatti che solo la lingua materna gli permetteva di "cantare" - a sa maneracampidanesa - liberamente, il suo mondo, ovvero senza lacci né ascendenze letterarie esterne: di Pascoli o Carducci poco importa

Una lingua, che il poeta ben conosce, padroneggia, curva e piega a suo piacimento, plasmandola e curandola con maestria e sicurezza. Una lingua, quella sardo-campidanese, comunque che già di per se stessa risulta particolarmente adatta per esprimere la satira, il comico, l'ironico, il giocoso: più delle altre varianti della lingua sarda. Forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni atteggiate dall'anima popolare nella forma del paradosso, della battuta, della satira. Questo spiega - fra l'altro - perché in sardo-capidanese sono state prodotti capolavori come Sa scomunica de prediAntiogu.

Il sardo del poeta villacidrese inoltre si rivela - come il poeta stesso si era augurato e promesso - "tersu e luxenti, plenu de musica, de forza e briu". Ovvero lingua duttile e flessibile, viva, fresca e prorompente, pregnante, espressiva e altamente significante, in grado di tradurre le abbondanti metafore e allegorie, le sentenze e le massime epigrammatiche, i simboli e le allusioni, i paradossi e i giochi di parole. Ma anche le ripetizioni, le contrazioni sintattiche e le brachilogie.

Pur poetando in sardo-campidanese, Bernardo de Linas conosce e padroneggia anche il logudorese: in questa variante compone Risposta de

 

 

 

Citerea, contenuta in Favolas. E anche questo non è casuale: molti cantadores e poeti campidanesi utilizzavano anche il logudorese come lingua veicolare dei loro componimenti, evidentemente ritenendolo - a torto o ragione poco importa- la variante più letteraria della Lingua sarda.

 

6.. Gli italianismi delle Favolas.

Certo, come già fece il critico de l'Unione sarda del 7 Dicembre 1909, recensendo le poesie di Favolas nella rubrica della pagina culturale "Fra libri e giornali", si può rimproverare al suo lessico un eccessivo ricorso a degli italianismi (pugnali, soggezioni, contadinu, grandissima paura, discosceso, maliarda, zucca, maditabundu, ottobri, cretinu, lingua sporca,). Ed effettivamente alcuni di questi lessemi sono improponibili: anche perché il sardo possiede i termini corrispettivi. E ancor più inaccettabili sono i superlativi assoluti, copiosamente presenti, segnatamente nella poesia Mastru Ciccia (onestissimu,gentilissimu,bellissimu,elegantissimu,benissimu,segurissimu,divotissimu,segurissimu,malissimu,allirghissimu,soddisfattissimu):

la lingua sarda infatti non prevede né ammette il superlativo assoluto con il suffisso -ìssimu. Questo è presente nella lingua italiana e latina. Al massimo nella lingua sarda il superlativo assoluto in -issimu si può utilizzare come nome, ma mai come aggettivo: es. su Santissimu, sa Purissima, s'Altissimu (utilizzato, questa volta a proposito, proprio da Bernardu de Linas nella già citata poesia Mastru Cicciu).

Curiosamente però si tratta della stessa accusa che molti critici rivolsero a Montanaru, il grande poeta desulese, più o meno contemporaneo di Bernardu de Linas. A tale critici ha risposto Michelangelo Pira.

Antioco Casula - scrive - "Sentì il sardo come volgare vivo, arricchendolo degli apporti nuovi che gli venivano dalla Lingua italiana, verificandolo nel parlare quotidiano, non ancora logorato o imbalsamato dall'uso scritto. Egli tentò in definitiva l'integrazione possibile con la lingua italiana all'interno della lingua sarda, facendo brillare in ogni vocabolo di questaquel che <nell'esausta parola italiana aveva perduto ogni sapore>".

La lingua sarda italianizzante - prosegue Pira - fu rimproverata a Montanaru. Ma altri che dopo di lui hanno tentato la strada della lingua sarda si sono smarriti e non hanno fatto più ritorno. Essi non sapevano o non sanno quel che Montanaru aveva capito d'istinto: che nel nostro secolo il sardo venuto a contatto con la lingua italiana è venuto modificandosi nelle sue strutture lessicali, sintattiche, morfologiche, fonetiche e semantiche. Con Montanaru il sardo fu ancora una volta lingua, mentre già nelle poesie nuoresi del Satta aveva un sapore dialettale" (Michelangelo Pira, Sardegna fra due lingue, Quaderni di Radio Cagliari, La Zattera editrice, Cagliari 1968, pag. 122).

Si tratta di una risposta autorevole e importante ma che non mi convince del tutto.

 

7. Poeta dallo "spirito locale"?

"E' sicuramente un poeta dallo «spirito locale» - scrive Martino Contu nell'antologia «Un hibou dal volo d'aquila» - nel senso che il suo legame con il paese  e più in generale con la provincia spiega quasi tutta la sua poesia. Ma non è un poeta culturalmente isolato".

Sono d'accordo ma direi di più. Anzi, per spiegare il rapporto della poesia di Bernardu de Linas con Villacidro, la provincia e la Sardegna intera, penso che occorra rispondere - si licet parare magna cun parvis - come fece il suo illustre compaesano, Giuseppe Dessì che proprio a proposito del rapporto dello scrittore e delle sue opere con la Sardegna, nell'introduzione ai Passeri (1955) si domandava e rispondeva: "Perché in Sardegna? mi si chiederà ancora una volta. Perché a parte le ragioni storiche e artistiche che richiederebbero un troppo lungo discorso, come ci insegnano Spinosa, Leibniz, Einstein e Merleau-Ponty, ogni punto dell'universo è anche il centro dell'universo". In ciò in sintonia con il grande romanziere francese Honoré de Balzac che diceva "Se vuoi essere veramente universale parla del paese dove sei nato"o con il nostro più grande poeta e scrittore etnico, Francesco Masala che ripeteva sempre: "Parla del tuo campanile e parlerai del mondo intero": a significare che ogni piccolo paese contiene i problemi dell'umanità e laddove vive un solo uomo sono presenti tutti gli aspetti dell'universo umano. O infine con l'antropologo e scrittore Giulio Angioni, che nel suo ultimo e bel romanzo Afa, sostanzialmente sostiene - questo almeno a me pare - che scrivere della Sardegna possa essere il modo più adatto per scrivere del mondo (Afa, Sellerio editore, Palermo, 2008, pag.60).

Mi sta quindi bene la definizione di Bernardu de Linas come poeta dallo "spirito locale", purché non si intenda "locale" in senso limitativo e angusto. I suoi personaggi infatti - e poco importa che siant a quattru cambas o a dus peis, - non sono rinchiusi e incatenati a Villacidro o nel Campidanoo nella Sardegna, isolati e separati dal mondo: la microstoria dei personaggi di Bernardu de Linas (con le loro manie e ubbie ma soprattutto con i loro vizi, avarizia prima di tutto, o le loro mediocrità: supponenza, vanagloria, superstizione, pettegolezzo, conformismo modaiolo, boria, presunzione. Pensiamo, a proposito di questi due ultimi "vizi", al signor Semproniu Mustaioni nel sonetto "Affroddieri"che si dilatano a rappresentazione della generale condizione umana. E le stesse vicende, storie e luoghi sono momenti di una geografia più vasta, nel suo

 

Le Poesie dell'ollolaese Maddalena Frau

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All'Università della Terza Età di Quartu mercoledì 20 aprile prossimo (ore 16, Aula Magna Viale Colombo 169/d), nel Corso di lingua e letteratura sarda, parlerò della figura e della poesia di Maddalena Frau.

Maddalena Frau è nata a Ollolai (NU) il 30 aprile 1945 e vive a Sanluri (CA). Insegnante elementare dal 1967 al 2006 nella provincia di Cagliari, ha iniziato a scrivere versi in lingua sarda (sia nella variante logudorese che campidanese) circa una quarantina di anni fa e ha arricchito le sue conoscenze linguistiche attraverso corsi di aggiornamento professionale e da autodidatta.
Si è sempre adoperata nella scuola con lo scopo di promuovere, salvaguardare e valorizzare la lingua, la letteratura e la cultura sarda, insegnandola.
Nel 2002 ha pubblicato una parte della sua produzione poetica nella silloge Lugore de luna (Luce lunare). In cui "canta" i ricordi, i giochi dell'infanzia e gli affetti; in cui nello smagato e tenero ricordo dell'infanzia, arcana e felice, si affolla un mondo di figure vive e fraterne, che la poetessa canta e vagheggia in modo commosso ma mai svenevole.
Ma Maddalena Frau canta anche la fede e la dimensione religiosa, particolarmente sentita e vissuta dalla poetessa, che illumina, vivifica e aiuta l'esistenza.
E dedica anche alcune poesie a Sos males de su mundu (I mali del mondo): tra cui i sequestri, l'AIDS, la droga, l'emarginazione degli anziani e l'inquinamento della civiltà (o inciviltà?) industriale, con la terra che non produce più fiori perché sono abbaidos cun venenu (innaffiati con veleno).
Nel 2006 ha pubblicato Sas meravillas de Don Bosco, un'altra silloge poetica: un vero e proprio poema sacro e poema epico sul fondatore dei Salesiani. Scrive a questo proposito Renzo Cau, in una magistrale analisi critica della silloge: "Se è vero che Sas Meravillas non può essere definita una biografia e per la selezione dei fatti irradianti l'ispantu (la meraviglia) e per la conseguante operazione di sintesi a cui è sottoposto il materiale biografico, non si può negare che il genere cui più si avvicina sia quello epico. Il racconto in versi infatti è tipico del poema. Anche i gosos (composizioni religiose e poetiche popolari antiche) rientrano nel genere epico, sebbene abbiano uno sviluppo embrionale. E M. Frau a questi si ispira, dando però alla composizione ben più ampio respiro".
Nel 2011 ha pubblicato Tramas de seda,  un libro di poesie e filastrocche, ninna-nanne, duru-duru e scioglilingua, modellate in strutture giocose, scherzose, onomatopeiche e iterative, che hanno proprio le movenze del tipo della filastrocca, della canzone, dell'indovinello, del non sense di matrice popolare ma che l'Autrice sottopone a un trattamento e a una rielaborazione personale e originale.
Sta per pubblicare con Edizioni Grafica del Parteolla la sua quarta Silloge poetica intitolata Undas.
Molte poesie contenute in Tramas de seda vengono cantate con successo dalla cantante sarda folk Silvia Sanna, (accompagnata da Antonello Pulina e da Marino Melis alla chitarra e da Antonio Pirastru all'organetto).
Stessa sorte era toccata ad alcune poesie della silloge Lugore de luna, cantate da Silvia Sanna ma anche da un gruppo musicale milanese, "Contrabbandieri di Conchiglie", ricalcando sonorità particolari simili a quelle di De Andrè e di Rino Gaetano.
Il fatto che le poesie di Maddalena Frau vengano musicate e cantate non deve stupire: nei suoi versi che sembra carezzare e coccolare, mostra infatti una naturale attitudine al canto, alla canzone, soprattutto popolare. Tanto che, nelle liriche più belle e suggestive, quando la poesia si flette più agevolmente, riesce a creare sinfonismi e fonie, onomatopee e cromatismi, ritmi e assonanze, attraverso una tessitura metrica lineare e abilmente alleggerita con invenzioni di movimenti e scatti musicali che consentono all'Autrice di giocare a suo piacimento con la materia, che tratta e canta, costruendovi pregevoli architetture linguistiche e musicali.
In questi ultimi anni ha iniziato a partecipare a vari concorsi di poesia sarda, ricevendo significativi  premi e riconoscimenti: fra gli altri ha vinto il primo premio a Ploaghe (SS), nel Concorso di poesia satirica "Larentu Ilieschi" 2010, con la poesia S'Aipoddu.
Ma ecco alcune sue belle e significative poesie,.

 

S'AIPODDU

Efisineddu andat in sa strada
cun s'origa attaccada a s'Aipoddu
e, a cropus de gambas e de coddu
fueddat cun sa musica Repada.

In sa busciacca de su cratzoneddu
ci ficchit su lettori musicanti;
de musica moderna deliranti
si ndi prenat su coru e su xrobeddu.

A cratzonis calaus a mesugonna,
a cufiedda cun su lecca-lecca
ndi bogat su macchini 'e discoteca
cun Paf Daddi, Beionse, Madonna...

Baddendu Roch En Rollu iscadenau,
e Tecno e Fanchi sbanda-sbanda
si callincunu ddi fait domanda
non bidi e no intendit: stontonau!

Cun s'Aipodu fintzas in sa scola:
Tu-tum! Tu-tum! Su filu chiassosu,
su discenti modernu gioiosu
de letzioni fait sa cassola.

Si corcat e si pesat Efisinu
Cun s'origa attaccada a s'Aipoddu
Pappat e dormit a corpus de coddu,
a sartius in domu e in camminu.

Su babbu allirgu, tziu Piriccu Soddu
Cun sa mammai totu affainada
Impari si dda faint sa repada
A sartieddus e corpus de soddu...
Cun s'origa attaccada a s'Aipoddu.

 

 

 

UMBRAS ISMENTIGADAS

Palas a sole umbrande
in terra a coda lada
tzias iscrariande
sutta sa contonada

Donni borta 'e die
cuntentas, puntuales
si sediant inie
sas bighinas negales.
 
Tiravant sa corria
a mossos e a ungrèddas
sa vida consumìa
umbrande in sas mureddas.
 
Prenavant sos cherrìgos
corves e coinzòlos
de brullas, de antigos
contos amorazòlos...

Curriat sa livria
apetigande tottu
pistande s'iscrarìa
in su tempus connotu.

Cussas manos nodosas
tottu pinnicronadàs
nde torrvant grabòsas
bellas innadigàdas.

Nde faghiant trumentu
cussas manos nieddas!
Ite divertimentu
pro sas criaturèddas!

Sas novas de sa bidda
contavant a ispàntu...
Su fragu de s'armidda
punghiat cada tantu.

Sa roba meriande
su pastore dormiu
tzias iscrariande
in beranu e istìu.

Bolavant sos puzònes
supra de s'iscrarìa
pintàda a pibìones
de seda colorìa.

Sas corves a trintzèra
poniant in su carru...
E Basili cun Pera
pipande a zigarru.

Nde faghiant camminu
a piccu de sudore...
e pro carchi sisinu
pro ozu e pro laore.

-E corves! E cherrigos!
naravat cudda tzia
in sos tempos antigos
foras de bidda mia.

Corves e canistèddas
comporavat s'istranzu
Sutta sas murighèddas
naschiat su balanzu.

Cussa manos nodosas
tottu l'as appo amadas,
galànas e grabosas...
Umbras ismentigadas.

Però sa Musa mia
Mi ghirat cun su bentu
Da boghe e cudda tzia...
Umbras de Gennargentu.

-E corves! E cherrigos!... -
Mi cantat donni die
-E corves e cherrìgos!
A comporare benìe!... -

 

FORA ISCORIA NUCLEARE

Fora iscoria nucleare
de venenu colorida!
Fora, atesu, mai in sa vida
muntonarzos de nuscare!
Sa Sardinna a la sarvare
est mutinde totu unida!

Est s'iscoria nucleare
de su mundu àliga fea.
Fora de sa terra mea
si la depent interrare
o, si nono, apicare
a su tzugu a vida intrea.

Cussos macos e tinzosos,
chene anima nen coro,
si l'abbratzent su tesoro,
che lingotos pretziosos,
sos bidones putzinosos
a pudire in dom'issoro!

Zai chi totu ant impestau
distruinde sa Natura,
sa moderna butadura
si la tenzant a costau,
a tzimentu fravigau
in sa domo a s' intradura.

Cherent fagher de Sardinna
muntonarzu natzionale...
regalande unu mortale
crancu 'e vida prus indinna
a sa nostra terra dinna
de bellesa e de gabbale.

No lis bastat su chi ant fatu
in cuddu tempus colau!?
Brusiau e isbuscau...
Cantu dannu e disacatu
pigandeche su recatu
de su populu isfrutau! ....

Totu no-che sunt leande
su terrinu e sa salude...
sa betzesa e  zobentude...
A zogu nos sunt pigande.
Pesae totus cantande
a difender sa salude!

E sos amministradores
no atzètent cosa gai!
In Sardinna mai mai!...
Solu matas e fiores
e profumos e colores
in sa terra de mannai!...

A sas Istitutziones
de Guvernu Italianu
lis pedimus una manu
de rispetu a sas pessones
de sas generatziones
de su populu isolanu.

A sos sardos un'apellu
cun corazu cherzo dare:
fortemente a refudare
de nos ponner a tropellu
che a bestias de masellu
prontos a no-che papare.

Fortes, cun coro galanu,
iscritores, zornalistas,
cun poetas e artistas
ischidae a su manzanu...
A s'ingannu rufianu
aberìe sas pibiristas!

Si nde peset su Nuraghe
cun Zigante 'e Monte 'e Prama,
de Sardinna antiga fama,
narande:-Cherimus paghe!
Rezistrae in su condaghe:
"Fora iscoria dae Mama!

Fora, atesu sos bidones
de cuss'aliga de morte!
Fora de sa nostra corte
fragos de perditziones!
Fora iscorias e cannones,
e de imbentos de morte!"-

Sardos, amigos, cantade
disterrados cun amore
pro difender cun ardore
cudda sarda dinnidade,
de Sardinna identidade,
de cultura e de valore!

Fora, atesu fuliade
sas iscorias de dolore!
Sa Sardinna est de mirare!
Non si vendet pro dinare!!!
Sa Sardinna est de mirare!
Fora iscoria nucleare!

 

 

S'ISTRESSE

Una tzia de chent'annos
si la cantat tesse-tesse:
-Oje minores e mannos
nachi ant totus s'istresse...
Ih, a casta 'e maledia!
No nd'aio intesu mai
dae cando so naschìa
maledia mala gai!

A chie curret in presse,
semper a molinadura,
nachi li pigat s'istresse
e no si nd'agatat cura.
It'errore! Oi! Ai!
Mai Deus cherzat mai!

Eh!...Toccat a andare abellu
e cun pasu cada tantu
ca si nono su cantzellu
s'aperit de campusantu.
Sa vida est una chimera:
una drittu, una a imbesse,
ma cun fide e  preghiera,
no imbucat cuss'istresse...

Sa moderna maledia
si sich'intrat, arguai!
Ih! Pro more 'e Deus sia(t)!
In tottube che sunt gai!...
Innoghe e in Continente
cantu tribulat sa zente!
E... toccat  a cumpadesse
ca  tenent totus s'istresse !-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La giornata mondiale per la sicurezza del lavoro

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Foto

di Valeria Casula

 

Il 28 aprile ricorre la giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro, istituita dall''Organizzazione Internazionale del Lavoro per promuovere la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali a livello globale.

Spesso le dimensioni del fenomeno infortunistico in Italia sono note solo agli addetti ai lavori, vale a dire a chi come me si occupa nelle organizzazioni di Ambiente, Salute e Sicurezza, eppure il fenomeno è assolutamente rilevante e investe tutte le aziende.

Dal 1951 al 2015 le vittime sul lavoro in Italia sono state superiori alle vittime civili italiane della seconda guerra mondiale (oltre 160.000 a fronte di 153.147 vittime civili del secondo conflitto mondiale) e gli infortuni oltre 70 milioni.

Ora, è pur vero che la seconda guerra mondiale è durata 6 anni a non 64, tuttavia il rapporto di 1 a 10 risulta comunque abnorme.

L'andamento infortunistico mostra una forte contrazione passando da oltre 4000 indicenti mortali l'anno negli anni '60 a circa 1000 attuali (compresi quelli in itinere), grazie non solo all'evoluzione delle misure tecniche (macchinari e attrezzature intrinsecamente più sicuri), ma anche alle misure gestionali (modalità operative e processi, formazione, informazione e addestramento su corretto utilizzo di materiali e attrezzature e processi, sorveglianza sanitaria, ...).

Occorre tuttavia uno sforzo continuo e maggiore per abbattere lo zoccolo duro degli infortuni, perché non è accettabile che si continui a morire, ammalarsi o farsi male di lavoro.

Tralascio il lavoro nero, ignominia di un paese civile, la cui incidenza infortuni e malattie professionali, benché sfugga in parte alle statistiche, è estremamente elevata, non solo perché coinvolge i settori a più elevato rischio "intrinseco"  (es. edilizia, agricoltura) ma soprattutto perché tale rischio non è mitigato attraverso le misure tecniche e gestionali sopra citate.

Mi riferisco ad aziende degne di questo nome, aziende che utilizzano attrezzature a norma, che formano, informano, addestrano e sottopongono a sorveglianza sanitaria i propri lavoratori, insomma aziende che ottemperano alla normativa vigente in materia antinfortunistica; ebbene, anche tali aziende hanno difficoltà a contrarre ulteriormente il fenomeno infortunistico.

Tali difficoltà sono dovute ad un orientamento culturale sia manageriale che diffuso a vari livelli delle organizzazioni che vede la sicurezza confliggere con gli obiettivi economici e operativi d'impresa e individuali, unita ad un certo "fatalismo" secondo cui l'infortunio è inevitabile.

Da un lato infatti ci sono le aziende (per fortuna non tutte!) che considerano la sicurezza come un mero costo, che non hanno ancora capito nel 21esimo secolo che non è solo un dovere etico e morale salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma è anche un dovere economico verso l'azienda stessa e verso la collettività, visto che l'INAIL stima che il costo complessivo di infortuni e malattie professionali nel nostro paese ammonta a quasi 50 miliardi di euro (oltre il 2% del PIL, a carico sia delle aziende che della collettività) e che le spese in sicurezza hanno un ritorno economico per le aziende pari al doppio del capitale investito.

Dall'altro c'è la cultura diffusa che "se tanto ti deve capitare ti capita e non puoi farci niente", che "si sa che nel nostro lavoro ogni tanto ci si fa male", che "sì, lo so che dovrei agganciare l'imbragatura ma sono di fretta, tanto scendo subito e sto attento", che "noi dobbiamo pensare a far andare avanti il business, e non abbiamo tempo da perdere con queste cose", che "lascia stare, non stare a segnalare che quel dispositivo fa uno strano rumore, tanto non sarà niente di ché".

Inutile dire che davanti a comportamenti e affermazioni di questo tipo tutti noi, a prescindere dal ruolo che ricopriamo in un'organizzazione, abbiamo non solo il diritto, ma anche e soprattutto il dovere di intervenire e/o segnalare.

Questa cultura è il principale nemico da sconfiggere per abbattere gli infortuni, non solo sul lavoro ma in tutti gli ambiti della nostra esistenza. Basti pensare a tutti i comportamenti insicuri frutto di questa cultura che spesso o talvolta adottiamo in auto, quando per fretta o per "assuefazione" al pericolo superiamo i limiti di velocità, usiamo il telefonino alla guida o pur di non sentire le lamentele del pargolo diciamo "e va bene puoi slacciarti la cintura, tanto siamo quasi arrivati!", ma anche quando non indossiamo il casco sulle piste di scii, in bicicletta o addirittura in moto.

Qualsiasi infortunio produce effetti non solo sulla persona che lo subisce ma su tantissime persone che lo circondano, la compagna/il compagno, i figli, i genitori, gli amici, i colleghi. Se poi si tratta di un infortunio grave l'effetto è devastante e compromette l'esistenza stessa oltreché dell'infortunato anche dei propri cari che dovranno prestare assistenza e comunque modificare abitudini e consuetudini.

In questa giornata vorrei ribadire con rinnovata determinazione che LA SFORTUNA NON ESISTE, che tutte le aziende che si sono impegnate seriamente su questo fronte hanno drasticamente ridotto il fenomeno infortunistico finanche a dimezzarlo in pochi anni, a dimostrazione che attraverso una cultura della sicurezza che sui traduce in comportamenti e ambienti sicuri GLI INCIDENTI SUL LAVORO POSSONO ESSERE EVITATI!

 


Giovanni Maria Angioy e la la fine di un sogno

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angioy_ritrattoUn Comitato denominato "SPOSTIAMO LA STATUA DI CARLO FELICE" di Piazza Yenne a Cagliari, propone  di sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare invece qualche eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli, quale per esempio, lo stesso Giovanni Maria Angioy.

Qui di seguito una breve scheda sull'eroe antifeudale, cui io propongo di dedicare una statua che sostituisca quella attuale di Carlo Feroce.

Giovanni Maria Angioy e la fine di un sogno

di Francesco Casula

-Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico,giudice della Reale Udienza.

La vita dell'Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un'intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni del cosiddetto «riformismo» (senza riforme)sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione e violenta repressione dei primi anni dell'Ottocento. In quel contesto si inserisce anche l'attività di Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, dopo aver studiato a Sassari nel Collegio Campoleno ed essersi addottorato in Legge, nel 1773 a Cagliari inizia la pratica forense.

Imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, è un alto funzionario dello Stato (fra l'altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente oltre che intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei "lumi" e delle riforme.

Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell'ombra negli anni delle

sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, - anche se il Manno, cercando di metterlo

in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi - ad iniziare dal Sulis - si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico

e come l'esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato

dall'illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino

Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale

Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri.

-Angioy: "Alternos"

Mentre nel capo di sopra divampa l'incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l'Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto il nome dell'Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito. Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire l'ordine nel Logudoro. L'intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella abolizione del feudalesimo in primis. Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall'oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano - scrive Vittorio Angius -  "in sotterranee oscure fetentissime carceri".

 

-L'Angioy a Sassari

Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta  - persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento - in breve tempo riordinò l'amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un'efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero"de si bogare sa cadena da-e su tuiu" come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell'anno precedente: il 17 marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni.

Angioy non poteva  non essere d'accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà, giustificò l'azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell'oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e assurdo e controproducente cercare di reprimere. Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l'abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad aprile. Si decise perciò di "impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, - scrive Natale Sanna - che facesse loro comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era ormai inarrestabile". Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari.

 

-L'Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno...

Il 2 Giugno 1896 l'Alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico dell'anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, "fatta sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese contro di lui", scrivono Lorenzo e Vittoria Del Piano. Difatti a Macomer popolani armati, sobillati pare da ricchi proprietari, cercarono di impedirgli il passaggio, sicché egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l'8 giugno giunse in vista di Oristano. Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l'Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito, da veri e propri ascari, sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici.

Così il generoso tentativo dell'Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di Alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare "ricercato". Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l'Angioy aveva in testa - come risulta dal suo Memoriale - non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell'antico Parlamento in Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che "doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell'Isola".

 

Sardegna come la Namibia?

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SARDEGNA COME LA NAMIBIA?

di Valeria Casula

mi inserisco un po' in punta di piedi in questo gruppo che seguo con interesse non perché abbia contributi storici con cui arricchire i contenuti del gruppo, ma perché ho piacere e desidero condividere con voi le ragioni che mi hanno spinto non solo ad aderire ma a sostenere attivamente, per quel che posso, l'iniziativa per la rimozione della statua di Carlo Felice.

Tali ragioni non risiedono tanto nel fatto che mio padre figuri fra i promotori, lui ha promosso decine se non centinaia di iniziative analoghe che non mi hanno mai visto al suo fianco come sostenitrice, al limite mi sono limitata ad aderirvi personalmente, ove le condividessi.

La ragione per cui quella statua mi umilia risiede nel mio vissuto personale, quando nell'ormai lontano 2000 con un paio di amiche partimmo per un magnifico viaggio in Namibia.
Sapevamo poco di quel paese prima della partenza, solo poche date lette in aereo prima di atterrare sulla guida turistica: colonia tedesca dal 1884 al 1915 (in cui vive ancora una minoranza tedesca), poi sotto il Sud Africa e indipendente dal 1990.

Trascorremmo la prima serata a Windhoek, la capitale e l'impatto fu subito forte in quanto notammo che l'apartheid, formalmente abolita anche in Sud Africa da oltre 5 anni, costituiva di fatto ancora una realtà: i locali tedeschi riportavano la scritta "Right of admission reserved" ed i locali dei nativi erano di fatto esclusivamente frequentati dai neri. I nomi di moltissime strade e piazze erano tedeschi, tutto evocava la Germania.
Ciò che mi stupì maggiormente fu vedere i ragazzi neri che allegramente passeggiavano nel centro della città indifferenti ad uno dei principali monumenti, il Reiterdenkmal, monumento equestre in onore dei soldati delle Schutztruppe caduti durante le guerre Herero.
Mi dissi: "Ma come fanno a restare tanto indifferenti? Perché non hanno ancora demolito quella statua? Perché ora che son liberi non erigono monumenti ai loro eroi, a chi ha dato la vita per liberare la Namibia? " Provai pena e compassione per quelle persone che, benché ormai libere, rimanevano ancora schiave, in regime di apartheid, tanto schiave da non "permettersi" neanche di rimuovere le onorificenze ai loro carnefici.
Il viaggio proseguì alternando bellezze naturalistiche a pseudo monumenti prima il fortino tedesco, poi il cimitero in cui sono sepolti i tedeschi caduti durante la rivolta herero del 1904, di cui ricordo ancora il numero e le parole della guida richiesta da noi locale, in realtà tedesca, "123, one two three, it's easy to remember!" (troppo pochi! pensai).
Con il cimitero monumentale toccammo il fondo e chiedemmo alla guida di modificare il tour, non eravamo affatto interessate a monumenti e simboli del colonialismo, pertanto iniziò anticipatamente il nostro safari.
Il safari, per me il primo, fu magnifico: ricordo tramonti mozzafiato ad osservare i branchi di elefanti che si abbeveravano dalla pozza, maestose giraffe, branchi di zebre, vedemmo persino il leone!

Nonostante tanta bellezza quel viaggio mi lasciò un forte vuoto: di quel paese avevo visto lo splendore della sua natura, il mare con i suoi delfini, la baia delle foche, il deserto, la savana con maestosi animali, tuttavia non ero riuscita a conoscere nulla degli uomini e delle donne che abitavano quel luogo, della loro vita, delle loro usanze, del loro rapporto con quella natura strepitosa.

Quell'estate, come ogni anno trascorsi la restante parte delle ferie nella mia Sardegna. Tornata a Cagliari, come accade quando si torna da luoghi lontani la guardai con un certo senso di estraneità, mantenendo ancora lo spirito del visitatore.
Una sera decisi di prendere un aperitivo all'aperto, risalii a piedi il Largo Carlo Felice per incontrarmi con gli amici in uno dei bar all'aperto della splendida Piazza Yenne. Mentre sorseggiavo il mio drink notai, come non avevo mai notato in tanti anni, l'incombente presenza della statua di Carlo Felice che strideva con la nostra gioia e spensieratezza di una serata fra amici in modo molto più violento di quanto non mi era apparso stridere qualche settimana prima il monumento ai soldati delle Schutztruppe. Quella statua era lì da due secoli e nessun sardo aveva mai provato o era mai riuscito a rimuoverla. Quella statua era lì da due secoli ed io ero tanto ormai abituata a vederla che mi era diventata indifferente.
Ora per la prima volta quella statua mi suscitava delle emozioni, mi suscitava una pena verso me stessa cento volte superiore a quella provata per i giovani Namibiani che avevo visto qualche settimana addietro passeggiare in prossimità del Reiterdenkmal e provai un profondo senso di umiliazione.

Nei giorni successivi persi lo sguardo del visitatore e ritornai ad assuefarmi alla mia città, smisi di stupirmi sia nei confronti delle sue bellezze che di Carlo Felice, rassegnata all'idea che lì avevo sempre visto quel monumento e lì l'avrei per sempre rivisto.

Quando il 28 aprile sono venuta a conoscenza dell'iniziativa non ho potuto non pensare al Reiterdenkmal di Windhoek e in me si è acceso il desiderio e la speranza, ormai persa, di poter finalmente ammirare al posto di Carlo Felice un uomo o una donna simbolo della nostra liberazione e non della nostra sottomissione.

Queste le ragioni del mio accorato appello a sottoscrivere la petizione relativa alla rimozione della statua di Carlo Felice, appello che rivolgo non solo ai Sardi ma a chiunque nel mondo, perché ritengo che non sia solo una questione dei Sardi ma sia un diritto universale quello di erigere onorificenze agli eroi e non agli oppressori, a Cagliari come a Windhoek; perché se i namibiani promuovessero una petizione per sostituire il Reiterdenkmal di Windhoek con un monumento in onore dei loro eroi io sarei fra i primi firmatari, anche se namibiana non sono.

Non si tratta di rimuovere la storia, si tratta leggerla correttamente, assegnando onorificenze ai personaggi che le hanno meritate.

Io non so se la storia della Sardegna sia stata più gloriosa della storia di altri luoghi o di altri popoli, quello che so per certo è che di essere Sarda non mi sono mai dovuta vergognare, perché è una storia in cui non siamo mai stati carnefici, non abbiamo mai conquistato, dominato e sottomesso alcun popolo. E per quanto possa provare un po' di disagio nei confronti di una certa remissività che il popolo Sardo ha mostrato in alcuni periodi della sua storia, tale disagio è infinitesimamente inferiore alla vergogna che ho provato nel citato viaggio per il fatto di essere europea.
Europea bianca davanti ai visi di splendidi bambini neri dallo stomaco vuoto che venivano portati dalle scuole del villaggio nel nostro lussuoso lodge a darci il benvenuto con le loro allegre canzoni mentre noi ci accingevamo a consumare le abbondanti libagioni davanti a tavole riccamente imbastite.

Inutile dire quanto questo senso indescrivibile di vergogna mi provocasse un tale groppo alla gola da impedirmi di deglutire un solo boccone del ricco pasto!

 

Perchè spostare la statua di Carlo Felice

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Francesco Casula: perché spostare la statua di Carlo FeliceAbbiamo intervistato Francesco Casula, un noto storico sardo, sulle motivazioni della richiesta di rimozione della statua di Carlo Felice dal centro di Cagliari.

 

  • Da dove nasce la petizione "Spostiamo la statua di Carlo Felice"?

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Il promotore del Comitato "Spostiamo la statua di Carlo Felice"è stato il professore universitario Giuseppe Melis Giordano. Io ho aderito subito e volentieri offrendo il mio contributo soprattutto dal punto di vista storico. Perché l'appello? Perché un popolo deve innalzare monumenti ai propri eroi non ai propri carnefici. E Carlo Felice tale è stato, per ammissione di tutti gli storici liberi.: un viceré e poi re, ottuso e inetto, sanguinario e famelico (pensava ad accumulare il suo "privato tesoro", depositando i soldi nelle banche londinesi mentre le carestie decimavano le popolazioni affamate). Su di lui la storia ha già emesso la sua condanna inappellabile. Lo storico Pietro Martini, pur di orientamento monarchico, lo descrive come gaudente parassita, gretto, che "avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi... servo dei ministri ma più dei cortigiani". Ai feudatari, da viceré, - scrive, un altro storico sardo Raimondo Carta Raspi - diede carta bianca per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l'epiteto di "carnefice e giudice dei suoi concittadini". Divenuto re con l'abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: "con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l'iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll'enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo": è ancora Pietro Martini a scriverlo.

  •  Qual'è stato storicamente il rapporto tra i sardi e i Savoia?

I savoia, letteralmente, odiavano i Sardi, Li disprezzavano. Di qui l'oppressione economica e fiscale, la repressione e il terrore: soprattutto da parte di Carlo .Felice. Il suo maestro, in tal senso è il reazionario Giuseppe de Maistre che arrivato in Sardegna nel 1800 per reggere la reale cancelleria, non pensa nei tre anni di reggenza, che ai propri interessi denotando uno sviscerato disprezzo per i sardi "je ne connais rien dans l'univers au-dessous (sotto) des molentes", soleva affermare nei loro confronti e in una lettera da Pietroburgo al Ministro Rossi nel 1805 scrive : "Le sarde est plus savage che le savage , car le savage ne connait la lumiere e le Sarde la connait".

Purtroppo molti, troppi sardi, riversano nei confronti dei savoia simpatie e consensi. E persino entusiastiche acclamazioni:annotano alcuni storici. Sindrome di Stoccolma? O opera degli ascari locali? Propenderei per questa ipotesi, sulla scia di Pietro Martini che scrive:"Le acclamazioni furono poche e queste furono comprate o vennero dagli uomini del privilegio, del favore e della reazione".

  • Savoia a parte, sembra che i sardi non abbiano nessuno a cui dedicare le vie e le piazze. Non abbiamo una nostra storia, dei nostri poeti, dei personaggi di spicco?

 La scuola italiana in Sardegna, da sempre, con una impostazione pedagogica, didattica e culturale coloniale e italocentrica, ha proibito, negato e  interrato, in primis la lingua sarda. E con essa la nostra ricca e variegata poesia e letteratura. Proprio in questi ultimi anni ho pubblicato due volumi su "Letteratura e civiltà della Sardegna" da cui emergono decine e decine di Autori, universalmente riconosciuti come poeti e romanzieri di altissimo valore, che la scuola ha cancellato:sic et simpliciter. Penso a Grazia Deledda, Lussu, Salvatore Satta; penso a Peppino Mereu  Montanaru, Cicitu Masala, Benvenuto Lobina.

Una scuola che ha cancellato omines e feminas de gabale, (penso a Eleonora d'Arborea ma anche a Marianna Bussalai) o intellettuali di livello europeo come Sigismondo Arquer; o eroi come Giovanni Maria Angioy e con esso Francesco Cilocco o Sanna Corda, vittime della violenta repressione dei Savoia e soprattutto di Carlo Felice. Un popolo libero e orgoglioso a questi personaggi deve dedicare le sue piazze, le sue vie, i suoi monumenti. Non agli oppressori.

  •  Qualcuno ha detto che la cancellazione sistematica della lingua e della memoria storica di un popolo sono da considerarsi un genocidio, a prescindere dalla presenza di omicidi di massa. I sardi stanno subendo un genocidio?

Sì è proprio così. Lo scriveva fin dagli anni '70 Antonio Simon Mossa: "Un processo forzato di integrazione minaccia l'identità culturale, linguistica ed etnica". Un vero e proprio genocidio sia pure - cito ancora Simon Mossa - "sotto ad innocente maschera della difesa di determinati interessi di classe o di casta, di privilegi, di antiche sopraffazioni ... con i guanti di velluto anziché col bastone".

Perché si commette genocidio, prosegue l'intellettuale algherese: "Non solo distruggendo fisicamente un popolo. Vi sono altri modi: assoggettandolo a schiavitù e a regime coloniale, assimilandolo per mezzo dell'integrazione: questo è il più moderno, il più subdolo perché incomincia con l'intorpidimento delle coscienze, ma il punto di arrivo è lo stesso: l'uccisione della coscienza comunitaria di un popolo e la distruzione della sua personalità".

  • Perché la sinistra italiana (cioè quella sinistra che non mette in discussione il rapporto coloniale con l'Italia della Sardegna) non apprezza la lotta per cambiare la toponomastica degli indipendentisti e di alcuni intellettuali sardi?

La sinistra italiana - ma in genere il marxismo occidentale -  è stata storicamente statalista e centralista. Per la verità con dei maestri e teorici illustri come Engels: "Il proletariato - affermava nel 1847 - può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile" e "non solo ha bisogno dell'accentramento com'è avviato dalla borghesia, ma dovrà addirittura portarlo più avanti". Per questo lo stesso Engels combatte il Federalismo "perché semplice espressione di anacronistici particolarismi provinciali".  Fa eccezione l'austromarxismo. Ricordo che nel 1899 al Congresso socialista austriaco si sostenne che la "soluzione delle questioni nazionali faceva parte degli interessi del proletariato ed era compito del Movimento socialista ed operaio coltivare e sviluppare le specificità nazionali di tutti i popoli dell'Austria".Peraltro in sintonia con il Marx più rivoluzionario che sosteneva: "un popolo che opprime un altro popolo non può mai essere libero" e a proposito della Questione irlandese affermava: "la vittoria della classe operaia inglese non può risolvere la Questione irlandese, sarà invece la soluzione della Questione irlandese a favorire e rendere possibile la vittoria della classe operaia". Il PCI  si è sempre mosso in direzione opposta: non ha mai capito né voluto riconoscere il colonialismo interno né tanto meno sostenuto i diritti dei popoli: ad iniziare da quello dell'autodeterminazione e, dunque dell'indipendenza. Di qui la sua ostilità verso tutto quello che è sardo: ad iniziare dalla toponomastica.

 8-5-2016

 

https://www.change.org/p/sindaco-spostiamo-la-statua-di-carlo-felice-istesiemus-s-ist%C3%A0tua-de-carlo-felice

 

Carlo Felice

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C'è da spostare una statua

di Francesco Casula

In occasione della ricorrenza di Sa Die de sa Sardigna, il 28 aprile scorso, un gruppo di cittadini (intellettuali, storici, docenti universitari) si sono ritrovati in Piazza Yenne a Cagliari e hanno dato vita a un Comitato "Spostiamo la statua di Carlo Felice". Nel volgere di qualche settimana arrivano centinaia e centinaia di adesioni: attualmente sono più di quattromila. Nel contempo il Comitato propone la sottoscrizione di una petizione (bilingue, in Sardo e in Italiano) con una proposta-richiesta che intende presentare al Sindaco e all'Amministrazione comunale di Cagliari corredata dalle firme, che  a tutt'oggi 29 maggio sono 950.

Ma ecco in estrema sintesi i punti più salienti della proposta:

1. Spostare la statua di Carlo Felice in un museo cittadino, corredandola di adeguata ed esaustiva didascalia che, con richiami bibliografici, permetta ad ogni visitatore del museo, di prendere coscienza della storia dello stesso.

2. Rinominare la strada "Largo Carlo Felice" con qualcosa che richiami un momento positivo della storia dell'Isola e della città, quale per esempio, la data del 28 aprile giorno in cui si celebra Sa Die de Sa Sardigna.

3. Sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare un eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli (per esempio Giovanni Maria Angioy i cui seguaci furono perseguitati da Carlo Felice).

4. Concordare, con le istituzioni scolastiche della città, iniziative di informazione e formazione degli studenti sulla storia della città di Cagliari così da favorire la conoscenza e la crescita del senso di identità che oggi appare debole, effimero e non consapevole.

Nella sustraordinario ordinò di utilizzare i cannoni, per la prima volta nella storia italiana, per sparare sulla folla a proposta-richiesta il Comitato parte da un dato: le gravissime  responsabilità politiche della zenia dei savoia, su cui la storia ha emesso giudizi inappellabili di condanna. Per fare qualche esempio penso a Umberto I, soprannominato "re mitraglia" e, non a caso. L'8 maggio 1988 il generale Fiorenzo Bava Beccaris, in qualità di Regio commissario al centro di  Milano, uccidendo 80 cittadini e ferendone altri 450: una vera e propria carneficina. Il re mitraglia "ricompensa" il generale Beccaris con una bella onorificenza: prima la Gran Croce dell'Ordine militare dei Savoia: In seguito lo nominerà pure senatore. Aveva o no infatti compiuto una brillante azione militare?

Altro re savoiardo funesto è stato Vittorio Emanuele III, uno dei responsabili principali di sciagure immani: l'ingresso dell'Italia nella 1° e 2° Guerra mondiale, l'avventura tragica del Fascismo - fu lui in seguito alla cosiddetta Marcia su Roma a nominare Mussolini capo del Governo - conclusasi con una ignominiosa fuga, quando l'Italia, persa la guerra, era nel caos.

Ma il re dei Savoia più funesto - almeno per la Sardegna - è stato Carlo Felice. Di questo sovrano ottuso despota e sanguinario mi piace riportare testualmente quanto scrive Giuseppi De Nur (in Buongiorno Sardegna:da dove veniamo, Ed. La Biglioteca dell'Identità, 2013, pagina 154) :" Partito il re e lasciata l'Isola nelle mani del viceré Carlo Felice, i feudatari continuarono imperterriti a dissanguare i vassalli con l'esosità delle loro gabelle mentre il viceré oziava nella sua villa di Orri, gaudentemente intrattenuto dai cortigiani locali e d'importazione, in conflitto permanente con tutto ciò che poteva affaticarlo non solo fisicamente ma anche intellettualmente, essendo uomo di scarsa cultura che rifuggiva dagli esercizi mentali troppo impegnativi. Il bilancio dello Stato era disastroso ma non quello suo personale, ovviamente, così che poteva permettersi di ostentare elargizioni in beneficenza con ciò che aveva riservato per sé. Fu, il suo, il governo poliziesco, sostenuto efficacemente da quelle anime nere dei

feudatari, a formare un sistema di potere dispotico e predatore in danno della popolazione locale, la cui autorità si manifestava delle forche erette per impiccare i trasgressori delle sue leggi, lì imposte con la forza.
E quegli ingenui abitanti di quello sfortunato luogo innalzarono invece per lui non una forca ma una statua, in una bella città capoluogo".

Si tratta di una ricostruzione storica assolutamente veritiera e in linea con quanto scrivono storici come Pietro Martini (peraltro di orientamento monarchico) : "avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi... servo dei ministri ma più dei cortigiani. O Raimondo Carta Raspi, secondo cui  diede carta bianca ai baroni per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l'epiteto di carnefice e giudice dei suoi concittadini.

Divenuto re con l'abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: "con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l'iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll'enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo": è ancora Pietro Martini a scriverlo.

La proposta del Comitato "Spostiamo la statua di Carlo Felice" dovrebbe a mio parere, essere dunque capita, valutata ed eventualmente sostenuta, partendo da questi corposi e oggettivi dati storici, difficilmente contestabili perché :De evidentibus non est disputandum"!

A decidere se spostare o meno la Statua di Carlo feroce (così, a ragione, fu soprannominato dagli stessi Piemontesi), dovrà essere la nuova Amministrazione comunale di Cagliari che verrà eletta a giorni. Avrà essa un sussulto di orgoglio e dignità o continuerà, a permettere e tollerare che in una Piazza centrale della capitale sarda troneggi, come fosse un eroe, un despota, brutale e sanguinario persecutore dei Sardi? 

 

Palabanda

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 PALABANDA:CONGIURA O RIVOLTA RIVOLUZIONARIA?

di FRANCESCO CASULA

Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui "le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati". Ed anche il "Risorgimento". Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d'Austria d'Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.

Congiura che però sarà ribattezzata "rivolta", "Moto rivoluzionario". Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta, viene "recuperata" e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero - secondo la versione italico-patriottarda e unitarista - delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una "congiura" o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece - per venire alla quaestio che ci interessa - la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a "Congiura". E con essa diventano "Congiure", ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l'Angius.

Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata "robetta" e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l'interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l'autore dell'Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.

"Simile interpretazione offusca - a parere di Sotgiu - le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». "Insistere sulla congiura - cito sempre lo storico sardo - potrebbe alimentare l'opinione sbagliata che l'insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni" 1.

Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell'Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.

Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall'amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.

Ebbene è stata avanzata l'ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l'azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l'ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.

E' questa l'ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: "La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l'una per sistema discreditava l'altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti" 2

Pressoché identica è l'ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive: "Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l'ultima dal marchese di Villahermosa, l'altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice" 3 .

Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l'attuazione del piano di riforma militare.

In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall'essere "favorevole ai Sardi" come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all'oscuro di tutto 4 Ricorda infatti Francesco Cesare Casula5. che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all'Isola "l'ordine pubblico" e il rispetto dell'Autorità. E comunque non poteva essere l'uomo scelto dai rivoluzionari persecutore com'era soprattutto dei democratici e dei giacobini.

In terzo luogo che bisogno c'era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l'unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.

Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra "i congiurati" di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l'Inghilterra e con la Francia: "Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c'era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96" 6 .

Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell'ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.

Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un'amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell'Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.

Cosa è stato il dramma de su famini de s'annu dox, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: "L'animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell'anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l'isola fu a tale condotta che peggio non poteva".

Ricorda quindi che la "strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d'acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando" 7.

Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: "Durarono lungamente le tracce dell'orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell'inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d'uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l'agricoltura. Ed a tacer d'altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici" 8.

E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: "Oltreché v'erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s'erano del sangue de' poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a' miseri incalzati dalla fame s'appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all'ultimo gradino, gli altri d'inedia e di stenti morivano" 9.

Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo di rivolgimento politico che meditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che "La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia. Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812. Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell'isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell'impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali...In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d'onesto vivere...i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico...Ondechè, scadutu dall'antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano...Superfluo è il discorrere della plebe...Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l'elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s'introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell'isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni" 10.

E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l'importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.

Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto - scrive Girolamo Sotgiu- che "i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d'impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila" 11.

Così succedeva che "Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta"12 .

Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall'esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché "gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina" 13.

Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con "contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa"14 .

E così "cresceva l'odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento" 15 .

Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l'orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).

Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti studenti e militari : "Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri...dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito" 16.

Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.

 

 

Note bibliografiche

1. Girolamo Sotgiu, L'Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AM&D Cagliari, 1995.

2. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de' popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 233-234.

3. Pietro Martini, Compendio della storia di Sardegna, Ed. A. Timon, Cagliari 1885, pagina 70.

4. Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume III, Editrice Sardegna, Cagliari 1986, pagina 413.

5.Francesco Cesare Casula, Il Dizionario storico sardo, Carlo Delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330.

6. Vittoria Del Piano (a cura di), Giacobini moderati e reazionari in Sardegna, saggio di un dizionario biografico 1973-1812 , Edizioni Castello, Cagliari, 1996, pagina 30.

7. Pietro Martini,Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagine 60-61

8. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de' popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, op. cit. pagina 222.

9. Pietro Martini, Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagina 61.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de' popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 229-230.

11.Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 252.

12, Ibidem, pagine 252-253.

13. Ibidem, pagina 253.

14. Maria Pes, La rivolta tradita, CUEC,Cagliari 1994, pagina119

15. Ibidem, pagina 120.

16. Ibidem, pagina 151.

 

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